Sono una mamma in difficoltà. Ho un figlio di 10 mesi desiderato intensamente,quasi fino allo sfinimento. Per cause di ostruzione tubarica mi sono dovuta sottoporre ad un percorso di pma, terminato,per mio volere, alla scelta di ovodonazione. La gravidanza è stata tragica perché ho dovuto sospendere la paroxetina che assumevo per forti stati di ansia legati a ossessioni e pensieri dubitativi da cui soffro da oltre 15 anni e per i le quali ho intrapreso un percorso psicologico e farmacologico. La gravidanza è stata costellata di ansie e manie di tutti i tipi relative all\’igiene fisica e alimentare. Dopo il parto queste fissazioni sono perdurate per un paio di mesi per giungere poi a una depressione post partum. In seguito alla separazione anche da mio marito il mio neurologo mi ha prescritto una terapia abbastanza strong che mi ha fatto riprendere(fluvoxamina,modalina, Trilafon e Protiaden). Ho fatto questo premessa per giungere al punto: da circa 6 mesi sono convinta di non provare un reale affetto per mio figlio, vivo la maternità come un compito ingrato, un dovere, non mi sento madre e non ho mai provato quel sentimento travolgente che tutte le mamme sperimentano. Vorrei capire se si tratta di una fase transitoria destinata ad evolvere in meglio o se ci sia qualcosa di patologico. Il mio medico sostiene che non sono ancora entrata nel ruolo di madre. Io non so di cosa si tratti ma sono molto preoccupata. Attendo un Vostro gentile riscontro e grazie in anticipo.
Angela Raimo
Cara Irene, per prima cosa mi domando per quale ragione in gravidanza abbia dovuto sospendere la paroxetina, visto che si tratta di un farmaco non solo privo di rischi malformativi sul feto ma anche con minimi effetti collaterali sul versante materno, tanto che è tra i farmaci di scelta sia in gravidanza sia in allattamento per trattare patologie di tipo ansioso e/o depressivo. Non mi meraviglia dunque che dopo una gravidanza così travagliata, affrontata senza l’aiuto farmacologico di cui evidentemente aveva stretta necessità, lei abbia sviluppato la depressione post partum: ci sarebbe stato da supirsi del contrario, era una conseguenza prevedibile, purtroppo. Credo sinceramente che lei sia stata fin troppo brava e coraggiosa a sostenere i nove mesi con le sue sole forze. Per quanto riguarda il sentimento di estraneità che lei prova nei confronti del suo piccino, così come la sensazione che prendersi cura di lui sia un “compito ingrato”, come lei lo definisce, sono parte integrante del suo disturbo dell’umore, sono sintomi di una malattia importante e non certo conseguenza di una sua intrinseca anaffettività. Cara Irene, diventare mamma è un’esperienza gioiosa solo se si sta emotivamente bene, altrimenti non può che trasformarsi in un onore insostenibile in quanto occuparsi di un bambino piccolo richiede oceani di energie mentali e fisiche, dedizione assoluta e la capacità di mettere da parte se stesse per provvedere in toto alle esigenze di un esserino che dipende completamente da chi si occupa di lui. Non è assolutamente vero che lei non è entrata nel ruolo di madre, se così fosse non mi avrebbe scritto questa lettera né si tormenterebbe per il timore di non amare suo figlio: già quello che lei mi ha scritto, la sua consapevolezza, è espressione di un amore materno saldo e forte. C’è una cosa che dico sempre: il benessere del bambino è imprescindibile dal benessere della mamma, quindi la cosa migliore che lei ora può fare per suo figlio è quella di curarsi, sia con i farmaci sia, se possibile, con la psicoterapia. La depressione in questo momento la governa, la controlla, è padrona dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, qualcuno ha definita questa malattia crudele un lupo nero che abbaia all’anima, tenendo in ostaggio, facendo riaffiorare sensi di colpa atavici da cui è impossibile sottrarsi. In questa condizione di spirito mi creda, cara mamma Irene, lei sta facendo fin troppo e questa è la prova certa che lei è entrata profondamente nel ruolo di madre, nonostante il gorgo di angoscia in cui la costringe la depressione. Vorrei davvero che lei mi credesse e che si desse tempo, tempo per guarire perché è questo che le serve per potersi convincere a sua volta di quello che invece ai miei occhi è già chiaro: lei è una mamma, quello è il suo bambino, siete già una coppia straordinaria voi due e lo sarete sempre di più. Voglio dire una cosa piuttosto impopolare, in quanto contraria alla narrazione a cui siamo abituati: l’amore materno non sempre e non per tutte esplode nell’istante in cui il bambino nasce ma può aver bisogno di crescere giorno dopo giorno, come del resto le altre relazioni affettive. Infine io mi auguro che lei abbia una rete di sostegno familiare, le serve qualcuno che l’aiuti a occuparsi del bambino dal punto di vista pratico (dal bagnetto alla pappa alle passeggiate all’aperto), che la sollevi almeno in parte dalle incombenze domestiche, che le permetta di prendersi cura di sé. Mi scriva ancora se ne sente il bisogno, l’abbraccio a distanza.
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