Dopo aver fatto salire il mio bambino di due anni, ho notato che su uno dei giochi elettrici (automobiline, aerei) che si trovano nei centri commerciali, a differenza degli altri che avevano il marchio C E questo aveva quello di china export( la C e la E più vicine). Sono comunque a norma?
Alessandro Lacchini
Gentile Signora,
la domanda che mi rivolge è utile spunto per una riflessione su un tema di sicura attualità.
La marcatura C E (con uno spazio non inferiore a 5 mm. tra le due lettere), esistente dal 2006 ed obbligatoria per categorie di beni disciplinate da apposite direttive UE, indica che il prodotto è stato soggetto a specifica valutazione prima della sua immissione sul mercato e che esso risponde ai requisiti UE in materia di sicurezza, salute e protezione ambientale.
Con l’utilizzo di tale marchio, il fabbricante attesta e garantisce la conformità del bene alle norme che ne regolano l’apposizione, con la conseguenza che il prodotto può essere venduto in tutto lo Spazio Economico Europeo (S.E.E.), comprendente 28 paesi dell’UE e 3 dell’EFTA (Associazione europea di libero scambio): Islanda, Norvegia e Liechtenstein.
Il marchio C E, se non che un prodotto sia stato fabbricato nel S.E.E., garantisce certo che esso sia stato sottoposto ad una valutazione preventiva rispetto all’immissione sul mercato e che soddisfi tutti i requisiti stabiliti dalle leggi per la sua commercializzazione.
Come ha potuto constatare personalmente, la semplicità grafica (la sua banalità, si è criticamente sostenuto) del marchio europeo consente di giocare sull’equivoco: svariate aziende cinesi, al fine di aggirare l’ostacolo della certificazione di qualità europea, hanno adottato un escamotage, semplice ma assai efficace, dando vita al marchio alternativo CE (senza spazio tra le lettere): nella versione cinese, CE significa “China Export” e la sigla viene apposta sui prodotti cinesi destinati all’esportazione, beni che non hanno sostenuto alcuna prova di conformità agli standard europei.
Un’operazione che, se denota una notevole inventiva, è senz’altro volta a raggirare l’acquirente in merito differenza sostanziale tra prodotti comunitari e non: per quelli provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, come detto, il marchio CE non garantisce affatto il consumatore circa i poc’anzi ricordati requisiti di qualità e sicurezza.
Ne consegue che l’acquirente non solo è tratto in inganno sulla provenienza geografica del bene, ma acquista un prodotto che, per poter essere economicamente competitivo, spesso non rispetta i criteri prescritti dalla legge continentale, potendosi anche rivelare nocivo per la salute.
Allo stato, purtroppo, non pare rinvenibile una normativa che consenta di sanzionare “a monte” tale condotta, seppur indubitabilmente scorretta: la Comunità Europea, più volta richiesta di un intervento su tale problematica, dichiara di non avere titolo per ingerire nel mercato cinese.
A ben vedere, all’articolo 10.3 del D. lgs. n. 194/07, di attuazione della direttiva 2004/108/CE concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla compatibilità elettromagnetica, si legge: “È vietato apporre sugli apparecchi e sui relativi imballaggi e istruzioni per l’uso segni che possano indurre in errore terzi in relazione al significato o alla forma grafica della marcatura C E” (…) “Chiunque appone marchi che possono confondersi con la marcatura C E ovvero ne limitano la visibilità e la leggibilità è assoggettato alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.000,00 ad euro 6.000,00″.
Ma è evidente come tale norma non sia di per sé idonea a rappresentare un deterrente efficace per i produttori cinesi. Discorso diverso, fortunatamente, vale per coloro che distribuiscano in Italia i prodotti con tale marchiatura “ingannevole”.
La posizione dei giudici italiani, sul punto, è netta e tutelante: la sigla C E “Comunità Europea”, ove falsa o ingannevole, assume rilevanza ai sensi dell’art. 515 c.p. in quanto, pur non incidendo sulla provenienza del prodotto, incide sulla qualità e sicurezza dello stesso garantendone la conformità agli standard europei.
Tale il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 33397/18, nel decidere del ricorso di un soggetto condannato dal Tribunale di Roma per tentata frode in commercio, “per aver compiuto atti diretti in modo non equivoco a porre in commercio cose mobili diverse da quelle reali”.
Si trattava, nello specifico, di oltre 2mila sveglie ed alcune tastiere per PC con logo “CE” (China Export), simile a quello comunitario C E (Comunità Europea) prescritto dalla direttiva 2006/42/CE e, dunque, idoneo a trarre in inganno i consumatori sulle caratteristiche dei prodotti stessi. Infatti, affermano i giudici, avendo tale marchio (C E) la funzione di tutelare gli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatori, pur non essendo una sigla di qualità o di origine, costituisce un «marchio amministrativo» che segnala la libera circolazione di quel prodotto nel mercato unico europeo. Ove falsa o ingannevole, dunque, tale apposizione assume rilevanza come reato in quanto, pur non incidendo sulla provenienza del prodotto, incide sulla qualità e sicurezza dello stesso.
In modo ancor più esplicito, si stabilisce che: “integra il reato di frode nell’esercizio del commercio la detenzione di marce recante la marcatura CE (indicativa della locuzione “China Export”) apposta con caratteri tali da ingenerare nel consumatore la erronea convinzione che i prodotti rechino, invece, il marchio CE (Comunità Europea), poiché quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato europeo”.
Per rispondere alla Sua domanda, dunque, riterrei certamente opportuna una segnalazione alle autorità competenti (N.A.S. o Guardia di Finanza), a maggior ragione nel caso assai frequente di coinvolgimento di piccoli utenti nell’utilizzo di beni contraffatti e spesso pericolosi.
Cordiali saluti.
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