“Un attimo!”, “Ancora un momento e arrivo…”, “Cosa vuoi? ho appena preso in mano il cellulare…” A rispondere così a chi chiede un po’ di attenzione non sono, come si potrebbe immaginare, ragazzi o ragazzini isolati nel loro mondo virtuale, ma genitori in carne e ossa intenti a navigare nel mare dei social e a rispondere a messaggi di massima non importanti e sicuramente non urgenti.
Talmente coinvolti da quello che stanno facendo da mostrarsi del tutto avulsi dalla realtà famigliare e dalle richieste dei propri figli. Già perché in questo caso proprio dei figli si tratta. Figli che si lamentano del disinteresse mostrato nei loro confronti da genitori iperconnessi.
Un vero paradosso frutto di una ricerca dell’Associazione nazionale Di.Te (organizzazione di volontariato dedicata alla sensibilizzazione, alla prevenzione e al trattamento delle dipendenze tecnologiche, del gioco d’azzardo patologico e dei fenomeni internet correlati come il cyberbullismo) effettuata su un campione di 2000 tra adolescenti e adulti, maschi e femmine, dalla quale emerge che ben il 38 per cento (e non è poco) delle mamme e dei papà intenti a controllare lo smartphone si mostrano distaccati, evasivi e certo anche un po’ infastiditi se vengono interrotti da una richiesta dei figli.
Il rischio in questi casi è che il figlio non si senta considerato – come ha spiegato il dottor Giuseppe Lavenia, psicologo psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Di.Te – e che un po’ per volta finisca per chiudersi in se stesso e non comunicare più.
Certo, non tutti i genitori si comportano così, ma la notizia fa riflettere. Soprattutto perché quei genitori sono poi gli stessi che accusano i figli di essere sempre connessi.
Dalla stessa ricerca emerge infatti che, quando sono i genitori a chiedere attenzione ai figli intenti a smanettare, le critiche e le ramanzine non mancano: “Sempre con quel cellulare in mano”, “Con chi stai parlando?”, “Spegnilo subito!”, “Quante volte ti ho detto che non devi usare il telefonino a tavola?”, “Cosa stai facendo col cellulare?”, “Se continui così ti tolgo il cellulare”. Ma, come noto, non è con i rimbrotti che si ottiene un miglioramento della situazione, ma con la comprensione, la complicità, la condivisione e, soprattutto, il buon esempio. Altrimenti il ragionamento del figlio sarà sempre più o meno lo stesso: “Perché io dovrei spegnere il cellulare quando tu, invece, lo tieni sempre acceso? Perché non dovrei controllarlo, quando tu lo guardi di continuo?”.
E, tanto per curiosità, che cosa ribattono i ragazzi per giustificarsi? “L’ho appena acceso”, “Mi stavo annoiando”, “Sto solo ascoltando musica”, “Un attimo e spengo”. Solo parole di cortesia e di convenienza che mascherano il fastidio e l’insofferenza per l’essere oggetto del giudizio genitoriale. Da qui al sentirsi incompresi, e quindi a non comunicare e a isolarsi, il passo è breve.