“Questa fiaba è troppo violenta, forse è meglio evitare di leggerla al bimbo, non vorrei che ne rimanesse impressionato”…
Sono tantissimi, oggi come ieri, i genitori che si pongono il dilemma sulle fiabe tradizionali e sulla loro “crudezza”: saranno davvero adatte a mio figlio o rischieranno di shockarlo trasmettendogli un’emozione troppo forte o comunque inadatta alla sua tenera età?
Nel dubbio, e per precauzione, meglio astenersi… e così gran parte delle mamme e dei papà opta per una soluzione edulcorata: sì alla fiaba classica, ma in una versione purgata, magari modificata dal genitore stesso al momento di raccontarla al piccolo.
Si tratta di un problema sempre aperto, che periodicamente torna d’attualità, scatenando dibattiti e confronti tra pedagogisti, psicologi dell’infanzia, educatori e genitori, che alla fine non trovano una soluzione univoca e definitiva…
La polemica è scoppiata con scalpore negli anni Settanta del secolo scorso, provocando una sorta di contestazione delle fiabe tradizionali – considerate assolutamente inaccettabili per la psiche immatura e suggestionabile dei piccoli – e dando inizio a una nuova era di racconti – le fiabe moderne – formulate in maniera calma e rassicurante, senza troppi riferimenti alla malvagità e al terrore che ne deriva, e quindi spesso prive di mordente, ovvero di suspence e di stimoli emozionali.
Invece è proprio il coinvolgimento il punto focale delle fiabe classiche, il fascino che esercitano sul bambino catturando la sua attenzione e suscitando in lui sensazioni reali come l’ansia, l’angoscia, la paura, la solitudine, l’inadeguatezza, il bisogno di amore, la richiesta di protezione.
A prendere per primo le difese delle fiabe classiche è stato, giusto a metà degli anni Settanta, il grande cattedratico psicoanalista e scrittore Bruno Bettelheim, con la pubblicazione de “Il mondo incantato”, un libro volto a dimostrare l’importanza delle fiabe e la loro influenza positiva nell’educazione e nella formazione della personalità infantile.
Secondo Bettelheim – e secondo la maggior parte degli esperti d’oggi – le fiabe insegnano al bambino a comprendere un po’ per volta il senso e il significato della vita.
Nella vita non esistono il buono e il cattivo in assoluto, nella fiaba sì. Nella realtà ci sono infinite gradazioni dell’uno e dell’altro mixate in proporzioni differenti e in modo confuso, difficili da comprendere per una mente ancora immatura.
La fiaba classica invece semplifica, propone due estremi opposti, simbolici, ma facili da capire: o uno è buono e finirà bene o è cattivo e sarà punito. Attraverso la fiaba il bambino non si confronta solo con il successo e l’amore, ma anche con la sconfitta e il timore, cioè con la realtà della vita, sia pure filtrata attraverso archetipi simbolici, ma comunque vissuta e metabolizzata, per crescere in modo graduale, a livello psichico ed emotivo.
Detto questo, oltretutto, non ha più importanza la conclusione della fiaba. Che abbia un lieto fine o no, non è questo che conta. E non importa neanche che la matrigna cattiva sia fatta rotolare giù per la montagna in una botte irta di chiodi oppure che venga rinchiusa nella buia prigione del castello. Certo, il cattivo alla fine deve essere punito, ma non importa come.
Tra l’altro, detto per inciso, nulla vieta che un genitore possa tranquillamente modificare il finale o altri dettagli, se lo ritiene opportuno, oppure possa giocare con il figlioletto a ipotizzare due o più finali possibili)…
Il bambino, in ogni caso, si identificherà nel personaggio vincente, principe azzurro o bella addormentata che sia, e imparerà che, per avere successo o superare una difficoltà, bisogna impegnarsi e lottare e avere pazienza e non scoraggiarsi mai.