I reparti di pediatria e i Pronto soccorso degli ospedali di tutta Italia sono pieni di bambini con problemi alle vie respiratorie. E il motivo del ricovero è quasi sempre lo stesso: influenza, coronavirus (Covid), bronchiolite, polmonite e relative complicazioni.
L’allarme, lanciato già un paio di mesi fa dalla Sip (Società italiana di pediatria) e ribadito adesso, è motivato non solo dal boom di piccoli contagiati (si tratta in genere di bimbi con meno di 5 anni), ma anche dalla congestione di molti ospedali e in particolare dalle insufficienti strutture di terapia intensiva pediatrica, che secondo le analisi della Sip, sarebbero sottodimensionate rispetto alle necessità del Paese e rispetto agli standard di altri Paesi europei.
“Ricoverare i bambini in una unità di terapia intensiva pediatrica” chiarisce la professoressa Annamaria Staiano, presidente della Sip, “permette di curarli in modo più appropriato rispetto ai piccoli che, in mancanza di posti disponibili, finiscono in terapie intensive per adulti. E questa considerazione è tanto più reale quanto più il bambino è piccolo e grave. Le terapie intensive pediatriche, infatti, sono tarate sui bambini e hanno un’elevata specificità non solo per i dispositivi medici, ma anche per le competenze del personale”.
I ricoveri pediatrici in ospedale sono attualmente dovuti a malattie respiratorie tipiche della stagione fredda e non solo: dall’influenza (che quest’inverno è particolarmente aggressiva per i più piccoli e può avere complicanze rischiose come la polmonite), alle parainfluenze, dai rhinovirus e gli adenovirus (raffreddori che nei lattanti possono diventare pericolosi) ai coronavirus (in particolare il Sars-cov-2/Covid con le sue contagiose varianti attuali), fino al virus repiratorio sinciziale (Vrs), responsabile di forme di bronchiolite e polmonite anche molto serie, che infettano soprattutto i bebè sotto l’anno di vita.
Tutte queste malattie hanno diverse caratteristiche in comune: sono causate da virus respiratori, hanno sintomi molto simili (come tosse, starnuti, febbre, raucedine, fame d’aria), sono fortemente contagiose e si trasmettono attraverso le microscopiche goccioline (droplet) di saliva o muco che si dispendono dell’aria quando si tossisce, si starnutisce o semplicemente si parla.
È molto facile che un adulto (anche un genitore) o un bambino (per esempio un fratellino più grande), pur non sospettando di esserne in qualche modo responsabile, possa infettare un bebè di pochi mesi semplicemente prendendolo in braccio e coccolandolo o baciandolo. Potrebbe infatti essere portatore asintomatico di una malattia respiratoria (per esempio Covid) o potrebbe avere un malanno in incubazione (per esempio influenza) e quindi contagiare il piccolino senza saperlo.
È noto che nel primo anno di vita il sistema immunitario non è ancora sviluppato. Certo, è anche vero che fino ai 6 mesi ci sono gli anticorpi passati dalla mamma durante la gestazione, ma spesso non bastano: il bebè di conseguenza resta più esposto al potenziale contagio e a tutte le conseguenze che le infezioni possono comportare.
Come fare quindi a evitare di esporre i più piccoli a questi rischi? Il consiglio dei pediatri è concorde: fare tutto il possibile per evitare di contagiarsi, in modo da non rischiare di contagiare a propria volta il piccolo indifeso. Ovvero sottoporre se stessi e i propri figlioli più grandi alle vaccinazioni disponibili e continuare a mettere in pratica tutte le norme anti-contagio che si sono perse negli ultimi tempi. Vale a dire lavarsi spesso le mani, usare le mascherine, tenere le distanze di sicurezza, evitare i luoghi chiusi, gli ambienti affollati, gli assembramenti… Sono gli stessi accorgimenti che abbiamo messo in pratica negli ultimi anni per arginare la diffusione del Sars-Cov-2 (Covid), ma aiutano a tenere lontano anche tutti gli altri virus respiratori.