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Noto anche come Nipt (acronimo di Non Invasive Prenatal Test), il test del DNA fetale è uno screening che viene eseguito durante la gravidanza per valutare in via preliminare il rischio di cromosomopatie (anomalie cromosomiche), da confermare eventualmente in una seconda fase con test più approfonditi.
Che cos’è il test del DNA fetale
È bene chiarire fin da subito come si tratti di un test assolutamente non invasivo. Questo perché, a differenza di altre indagini a livello fetale, non va a prelevare campioni direttamente dal feto, ma analizza il DNA delle cellule fetali presenti nel sangue della gestante. Insomma, è sufficiente un semplice prelievo del sangue della mamma per effettuare un test altamente specialistico che consente di individuare preventivamene eventuali problematiche e malattie cromosomiche nel nascituro.
Scendendo nel dettaglio, questo screening consente di andare a intercettare tutta una serie di problematiche a livello dei cromosomi del feto, a partire da quelle che causano le sindromi di Down, di Klinefelter o di Edwards, fino ad altre mutazioni cromosomiche e patologie metaboliche.
Quali conseguenze ci sono per chi fa il test del DNA fetale
Pur non invasivo, il test del DNA fetale solleva interrogativi non solo sulla salute del nascituro ma anche sulle conseguenze che può avere per i genitori. In questo contesto, infatti, emergono diversi aspetti da valutare attentamente.
Anzitutto, è da prendere in considerazione l’aspetto emotivo. Da un lato, infatti, il test offre la possibilità di individuare precocemente eventuali malattie cromosomiche nel feto, ma dall’altro può anche generare ansie e preoccupazioni nei genitori, specialmente in caso di risultati ambigui o indicativi di una condizione problematica.
Un’altra conseguenza riguarda la gestione delle informazioni. I risultati del test possono influenzare le decisioni future dei genitori riguardo alla gravidanza, come la scelta di interrompere la gestazione o prepararsi per le necessità speciali del nascituro. Questo solleva inevitabilmente complessi interrogativi etici e morali sulla libertà di scelta dei genitori e sull’accesso alle risorse mediche e sociali.
Attenzione, però, perché, nonostante si stia lavorando per rendere il test sempre più attendibile, un responso negativo non può escludere completamente problematiche, così come uno positivo non deve essere necessariamente una sentenza. Come rivelato dalla statistica, infatti, in almeno il 5% dei casi di positività, il feto risulta poi essere sano. In questi casi si parla di “falsi positivi”.
Quello che è certo è che con test positivo, per confermare o sbugiardare il responso, la futura mamma dovrà sottoporsi a ulteriori indagini che passano, inevitabilmente, da esami maggiormente invasivi, come l’amniocentesi, ma che assicurano percentuali di attendibilità estremamente elevate e restituiscono un quadro più preciso.
Quando eseguire il test del DNA fetale
Il test del DNA fetale può essere eseguito fin dalla decima settimana di gestazione, ma poiché non rientra nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) risulta ancora a pagamento. Seppure consigliato a tutte le future mamme, esistono alcuni fattori di rischio che lo rendono ancora più necessario e importante per alcune donne.
Parliamo, soprattutto di genitori con alle spalle una familiarità con patologie cromosomiche. Per questo motivo, i risultati del test del DNA fetale prevedono sempre la consulenza specialistica di un genetista, necessaria per indagare e individuare il rischio potenziale di anomalie cromosomiche nel nascituro.
A chi è consigliato il test
Ogni futura mamma può sottoporsi al test del DNA, ma, come detto, sono quelle con una familiarità di coppia con anomalie cromosomiche a veder caldamente consigliata l’analisi. Tra i primi fattori di rischio rientra certamente anche l’età della donna, soprattutto se si sono superati i 35 anni.
Ovviamente, anche precedenti aborti o gravidanze con diagnosi di anomalie rappresentano un fattore di rischio, così come gioca un ruolo fondamentale lo stile la vita della futura mamma, a cominciare dal fumo e dalla convivenza con patologie metaboliche, passando per obesità e malattie correlate, come il diabete.