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Gli esami prenatali in gravidanza non invasivi sono sempre più richiesti in Italia. Negli ultimi anni la richiesta di Nipt (Non invasive prenatal testing) è aumentata, in parte perché si è spostata in avanti l’età media della maternità (si fanno figli sempre più tardi e l’aumento dell’età materna è correlato con un aumento del rischio che il feto sia affetto da anomalie dei cromosomi), in parte perché questi esami sono semplici da eseguire e non invasivi, al contrario di metodiche come l’amniocentesi che implicano una percentuale, anche se bassa, di rischio aborto.
Cifre da capogiro
Negli Stati Uniti il mercato ha raggiunto i 613 milioni di dollari nel 2015 e, secondo le stime, supererà i 2 miliardi di dollari tra 6 anni, per arrivare a 5,5 miliardi entro il 2025. E anche in Italia gli esami prenatali in gravidanza non invasivi sono sempre più richiesti.
Test sul Dna
Il test si basa sull’analisi (effettuata grazie a moderne tecniche di sequenziamento) di piccole porzioni di Dna fetale che circolano nel sangue materno a partire dalla quinta settimana di gestazione. Si esegue con un normale prelievo di sangue materno nel primo trimestre, in genere dalla decima settimana, e non comporta rischi né per la madre né per il bebè.
Non solo sindrome di Down
Serve a individuare le più frequenti anomalie cromosomiche del feto (in assenza di genitori a rischio): la trisomia del cromosoma 21, che comporta la sindrome di Down, quella 18, quella del 13 e quelle dei cromosomi sessuali. Non è un test diagnostico, ma di screening, cioè di valutazione del rischio: individua le donne con un un’alta probabilità di avere un bimbo con quelle patologie. La ricerca più ampia svolta sino a oggi per confermare l’efficacia di queste metodiche è stata condotta sul G-test, un test totalmente made in Italy, che ha dimostrato un’elevata accuratezza in più di 146.000 esami, sia nelle gravidanze a rischio, sia in quelle non a rischio. Lo stesso test è stato riprodotto per più di un milione di persone.
Conferme con gli esami diagnostici
Oggi, grazie agli studi condotti dalla Bioscience Genomics, spin off dell’Università di Roma Tor Vergata, è possibile con il G-test fare lo screening per svariate anomalie genetiche legate prevalentemente a patologie rare. Nel caso in cui dia un risultato positivo, il protocollo prevede che l’esame sia confermato da un test invasivo come amniocentesi o villocentesi.