Gli appuntamenti da rispettare
Le analisi delle urine
Vanno ripetute, secondo quanto previsto dal decreto legge n. 245 del 1998, tra la 14a e la 18a settimana di gravidanza e sono completamente gratuite (cioè non si deve nemmeno pagare il ticket) purché eseguite in una struttura pubblica o convenzionata con il Servizio sanitario nazionale. Occorre solo presentare la prescrizione del medico di base o di uno specialista operante in una struttura pubblica. Come quelle eseguite nel secondo mese, anche queste hanno lo scopo di verificare alcuni valori:
-> l’assenza di albumina: una proteina che, se presente nelle urine, può essere la spia della gestosi, malattia seria che può comparire solo in gravidanza ed è caratterizzata anche da pressione alta e gonfiori;
-> l’assenza di zuccheri: occorre verificare la quantità di zuccheri presenti nelle urine per capire se la futura mamma soffre di diabete gestazionale, malattia che può comparire solo in gravidanza, dovuta a uno squilibrio nella trasformazione del glucosio;
-> l’assenza di microbi: se l’analisi delle urine rileva un’infezione batterica alle vie urinarie (il sistema di condotti che porta l’urina dal rene all’esterno) il ginecologo prescrive alla futura mamma un ulteriore controllo, l’urinocoltura, per individuare il batterio responsabile e stabilire l’antibiotico più adatto.
La visita dal ginecologo
Non si tratta di un appuntamento di routine, ma di solito è prassi eseguire ogni mese un controllo. Il ginecologo, in occasione di questa visita, controlla l’aumento di peso della gestante, misura la pressione arteriosa per verificare che sia nella norma, ascolta il battito cardiaco del feto (con un particolare strumento detto stetofonendoscopio), si informa sui movimenti del piccolo nel pancione e sugli eventuali disturbi, in modo da prescrivere, se necessario, esami specifici o suggerire le cure più adatte.
Anche questo non è un esame di routine, ma viene prescritto spesso intorno a quest’epoca per accertare la presenza nella vagina di particolari batteri, che possono provocare infezioni locali. In gravidanza, infatti, è molto importante prevenire le infezioni vaginali, che potrebbero risalire nell’utero e svilupparsi anche al suo interno, creando seri problemi per il feto. L’esame consiste in un semplice esame di laboratorio, che si effettua analizzando le sostanze prodotte dalla vagina. Viene prescritto quando le perdite vaginali bianche, che entro certi limiti rappresentano un fenomeno normale, hanno una consistenza, colore o odore diversi dal solito o sono accompagnate da prurito o bruciore. Non bisogna, invece, preoccuparsi se le secrezioni vaginali sono solo più abbondanti. Se viene prescritto dal medico, è previsto comunque il pagamento di un ticket (cui se ne deve aggiungere un altro se bisogna fare anche l’antibiogramma).
Come si effettua
Il ginecologo preleva le sostanze secrete dalla vagina utilizzando uno strumento, costituito da un apposito bastoncino che termina con un piccolo tampone. Il materiale viene poi consegnato al laboratorio di analisi, dove vengono fatti proliferare i microrganismi eventualmente presenti sul tampone. A questo punto si procede all’analisi vera e propria, che permette di stabilire se tra i microbi che proliferano sul tampone vi sono batteri in grado di provocare un’infezione. Se il risultato è positivo (vi sono cioè germi dannosi), occorre eseguire anche l’antibiogramma, un esame utile per stabilire qual è l’antibiotico più indicato per eliminare lo specifico batterio evidenziato con il tampone vaginale.
I controlli in più
Il tritest
Consiste in un prelievo di sangue materno per analizzare tre sostanze prodotte dalla placenta e dal feto: ossia l’alfafetoproteina, l’estriolo non coniugato e la gonadotropina corionica umana. Confrontando questi tre dati con l’età materna è possibile individuare le donne più a rischio di avere un bimbo affetto da difetti di chiusura del tubo neurale (come la spina bifida), da sindrome di Down o da altre anomalie cromosomiche. Si esegue tra la 15a e la 17a settimana di gravidanza e non comporta rischi per la mamma né per il feto. Si tratta di un test di screening, ossia non fornisce la certezza di identificare tutti i feti affetti da un’anomalia, ma consente solo di valutare se è il caso o meno di consigliare alla futura mamma l’esecuzione di esami di diagnosi prenatale (come l’amniocentesi) senz’altro più invasivi, ma più precisi. Dal punto di vista medico, si considera “a rischio” una gestante la cui probabilità di avere un feto affetto sia superiore o uguale a 350 casi (che è il rischio di una donna di 35 anni di età). L’affidabilità del test non è elevata (pari a circa il 60 per cento).
L’amniocentesi
Consiste nel prelievo di una piccolissima quantità di liquido amniotico, dove è immerso il feto. L’esame viene eseguito tramite un sottilissimo ago, fatto passare attraverso l’addome della futura mamma fino a raggiungere il liquido amniotico, nel quale sono presenti le cellule di sfaldamento del feto (che si sono cioè staccate spontaneamente), provenienti dalla pelle, dalle mucose e dalle vie urinarie. Questa operazione viene effettuata in modo molto lento e sempre sotto guida ecografica, in modo da trovare il punto migliore nel quale inserire l’ago. Il periodo ideale per eseguire l’esame è tra la 15a e la 18a settimana di gravidanza. L’introduzione dell’ago provoca una sensazione non dolorosa, simile al fastidio di un’iniezione intramuscolare. Si tratta di un test di diagnosi prenatale, cioè che indica con certezza se il piccolo è affetto o meno da un’anomalia cromosomica. L’esame è invasivo: comporta, infatti, un rischio di aborto spontaneo (tra lo 0,5 e l’1 per cento).