Argomenti trattati
Al momento, gli unici esami che permettono di scoprire con certezza se il feto ha la sindrome di Down sono la villocentesi e l’amniocentesi. In futuro, però, le cose potrebbero cambiare. Infatti, un gruppo di ricercatori italiani, della Fondazione Cutino di Palermo, sta verificando l’attendibilità e l’efficacia di un nuovo test diagnostico non invasivo, chiamato celocentesi.
Una scoperta italiana
La celocentesi è un’innovativa metodica di diagnosi prenatale, messa a punto dalla Fondazione Cutino, con la collaborazione dell’Ematologia dell’ospedale “Cervello” di Palermo. Si sta studiando la sua efficacia per la sindrome di Down.
Per via transvaginale
Il test, che va eseguito fra la settima e la nona settimana di gestazione, consiste nel prelievo di un campione di liquido celomatico. Si tratta di un liquido che nelle prime settimane di gravidanza avvolge il sacco amniotico, per poi scomparire successivamente. In pratica, tramite un sottile ago introdotto per via transvaginale, si preleva il materiale che viene poi analizzato in laboratorio. I macchinari permettono di isolare le cellule embrionali e di analizzare il loro Dna, alla ricerca di eventuali anomalie genetiche.
Era nato per la diagnosi della talassemia
Inizialmente, il test era nato non per la sindrome di Down, ma per individuare i feti colpiti da talassemia, una malattia ereditaria che comporta anemia. Ora, però, si stanno studiando altre possibili applicazioni. In particolare, grazie al progetto “Sistema di purificazione di cellule fetali per indagini prenatali precoci” finanziato dall’Assessorato alle attività produttive, la Fondazione Cutino e altri Enti nazionali stanno conducendo delle ricerche per verificarne l’attendibilità anche nella diagnosi della sindrome di Down e di altre malattie cromosomiche.
La situazione attuale
Per ora, la celocentesi per la talassemia è eseguita solo presso il reparto di Ematologia II, diretto dal dottor Aurelio Maggio, dell’ospedale “Cervello” di Palermo. Fornisce risultati certi al 100% già dal secondo mese di gravidanza. “Anticipare i risultati al 2° mese consente di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza e non all’aborto terapeutico, con un beneficio per la donna sia fisico che emotivo. Ma l’aborto non è la sola prospettiva. La diagnosi così precoce apre la strada a interventi terapeutici in utero. Questa è la direzione verso cui lavoriamo” ha spiegato Aurelio Maggio.