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Il sangue di una donna incinta contiene, oltre ai suoi, alcuni frammenti di Dna del feto. Sequenziando questo mix di Dna, gli scienziati possono determinare se il feto ha, o meno, un numero anormale di cromosomi, come per esempio una copia in più del cromosoma 21, responsabile della sindrome di Down.
Dalla decima settimana di gestazione
Sulle pagine del New England Journal of Medicine è stato pubblicato lo studio che ha valutato l’efficacia dell’esame che consiste nell’analisi del Dna del feto dal sangue della madre, a partire dalla decima settimana di gestazione. La ricerca è stata condotta da Diana Bianchi del Tufts Medical Center’s Floating Hospital for Children. Gli esperti hanno preso campioni di sangue da quasi 2.000 donne in stato di gravidanza in 21 differenti centri americani.
Due esami a confronto
Sono stati messi a confronto il nuovo esame e quello attualmente in uso, il cosiddetto Bi-Test. Quest’ultimo si esegue nel primo trimestre della gravidanza, tra la 11a e la 14a settimana, per vedere se il feto è affetto da trisomia 21 o sindrome di Down. Si tratta, però, di un test che può dare falsi positivi e costringe quindi la donna, nel caso in cui il risultato indichi un alto rischio di anomalie, a sottoporsi a ulteriori accertamenti con test più invasivi come l’amniocentesi, che comportano forti disagi per la mamma e aumentano il rischio di aborto spontaneo.
Diminuiscono i falsi positivi
Con il nuovo test, invece, non c’è nessun rischio e i falsi positivi (ovvero diagnosi positive a fronte di un’assenza di malattia) diminuiscono. Con l’esame del Dna si è avuto lo 0,3 per cento di falsi positivi nel caso della sindrome di Down (contro il 3,6 del test tradizionale) e lo 0,2 per cento nel caso della trisomia del cromosoma 18 (contro lo 0,6). L’esame è in grado di diagnosticare correttamente la sindrome di Down del feto quasi nel 50 per cento dei casi, contro poco più del 4 per cento del test adesso in uso.