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Le tecniche di fecondazione in vitro hanno percentuali di successo molto variabili, perché influenzate da diversi fattori, come l’età della futura mamma, il suo grado di fertilità e la risposta individuale alle cure. Per alcune donne, purtroppo, il tentativo di restare incinte con le tecniche di procreazione medicalmente assistita si traduce in un sogno infranto, perché l’embrione non si annida, oppure la gravidanza si interrompe precocemente (aborto spontaneo).
Come limitare gli insuccessi
La ricerca si sta interrogando su come limitare al minimo il rischio di fallimenti. Uno studio, in particolare, ha scoperto che le donne che producono meno ovuli durante un trattamento di fecondazione in vitro hanno un rischio maggiore di aborto. Il lavoro è opera di ricercatori londinesi del King’s College e dell’Università di Birmingham, che hanno seguito 124.351 gravidanze tra il 1991 e il 2008. Circa il 20% delle donne che hanno prodotto meno di quattro ovuli dopo la fase di stimolazione ovarica della fecondazione in vitro sono andate incontro a un aborto spontaneo. I rischi si sono ridotti per chi ha prodotto più ovuli.
In che modo si procede
La procedura di fecondazione in vitro prevede la somministrazione di farmaci (gonadotropine) per via intramuscolare o sottocutanea, che stimolano lo sviluppo di più cellule uovo. Si procede, quindi, all’aspirazione dei follicoli, al fine di recuperare gli ovociti maturati. Il seme maschile e l’ovocita della donna vengono collocati insieme in un recipiente per consentire la fecondazione. L’embrione formatosi viene infine introdotto in utero per via vaginale entro 72 ore.