L’usignolo – Andersen

Redazione A cura di “La Redazione” Pubblicato il 11/06/2021 Aggiornato il 11/06/2021

L'usignolo è una fiaba di Hans Christian Andersen scitta nel 1843. È una storia molto dolce che insegna a non farsi abbagliare dalle apparenze ma a riconoscere ciò che conta davvero

L’usignolo – Andersen

L’usignolo

In Cina, lo sai bene, l’imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di molti anni fa, ma proprio per questo vale la pena di sentirla, prima che venga dimenticata. Il castello dell’imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di finissima porcellana, costosissima ma così fragile e delicata che, toccandola, bisognava fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d’argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell’imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si arrivava in uno splendido bosco con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco terminava vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco. Tra questi rami viveva un usignolo e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da fare, sentendolo cantare si fermava a ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. “Oh, Signore, che bello!” diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l’uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: “Oh, Signore, che bello!”.

Alla città dell’imperatore giungevano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però sentivano l’usignolo, dicevano tutti: “Questa è la meraviglia più grande!”. I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l’usignolo, anzi l’usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull’usignolo del bosco, vicino al mare profondo. Quei libri girarono per il mondo e alcuni giunsero fino all’imperatore. Seduto sul trono d’oro, leggeva continuamente, facendo ogni momento cenni di assenso con la testa, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. «Ma l’usignolo è la cosa più bella» c’era scritto. “Che cosa?” esclamò l’imperatore. “L’usignolo? Non lo conosco affatto! Esiste un tale uccello nel mio regno, e per di più nel mio giardino! Non l’ho mai saputo! E bisogna leggerlo per saperlo!” Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o chiedergli qualcosa, non diceva altro che: “P…!”, il che non significa nulla. “Qui dovrebbe esserci un uccello meraviglioso chiamato usignolo” spiegò l’imperatore. “Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Perché nessuno me ne ha mai parlato?” “Non l’ho mai sentito nominare prima d’ora” rispose il luogotenente “non è mai stato introdotto a corte.” “Voglio che venga qui stasera a cantare per me” concluse l’imperatore. “Tutto il mondo sa che cosa possiedo e io non lo so!” “Non l’ho mai sentito nominare prima d’ora!” ripeté il luogotenente “farò in modo di trovarlo.” Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi; nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell’usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall’imperatore e gli disse che doveva essere un’invenzione di chi aveva scritto i libri. “Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! È certamente un’invenzione fatta con quella che si chiama magia nera.” “Ma quel libro in cui l’ho letto” disse l’imperatore “mi è stato inviato dal potente imperatore del Giappone, quindi non può essere falso. Voglio sentire quell’usignolo! Dev’essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte sarà picchiata sulla pancia dopo cena!” “Tsing-pe!” rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva con lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva eccetto quelli della corte. Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: “O Dio! L’usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po’ degli avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l’usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!”. “Povera sguattera” esclamò il luogotenente “ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell’imperatore se ci porterai dall’usignolo, dato che è stato convocato per questa sera.” Così tutti si diressero nel bosco, dove di solito cantava l’usignolo; c’era mezza corte. Sul più bello una mucca cominciò a muggire. “Oh!” dissero i gentiluomini di corte “eccolo! C’è una forza straordinaria in un animale così piccolo; certo l’ho sentito prima!” “No! Sono le mucche che muggiscono” spiegò la piccola sguattera “siamo ancora lontani.” Allora le rane gracidarono nello stagno. “Bello!” disse il cappellano di corte cinese “ora lo sento, sembrano tante piccole campane!” “No! Sono le rane” esclamò la fanciulla. “Sentite, sentite! Eccolo lì” e indicò un piccolo uccello grigio tra i rami. “È possibile?” disse il luogotenente “non me lo sarei mai immaginato così. Come è modesto! Ha certamente perso i suoi colori nel vedersi intorno tanta gente distinta.” “Piccolo usignolo!” gridò la fanciulla a voce alta “il nostro clemente imperatore desidera che tu canti per lui!” “Volentieri!” rispose l’usignolo, e cantò che era un piacere sentirlo. “È come se fossero campane di vetro!” commentò il luogotenente. “E guardate quella piccola gola, come si sforza! È stranissimo che non l’abbiamo mai sentito prima! Avrà sicuramente successo a corte.” “Devo cantare ancora una volta per l’imperatore?” chiese l’usignolo, convinto che l’imperatore fosse presente. “Mio eccellente usignolo!” disse il luogotenente “ho il grande piacere di invitarla a una festa a corte, questa sera, dove lei incanterà la Nostra Altezza Imperiale con il suo affascinante canto!” “È meglio tra il verde!” rispose l’usignolo, ma li seguì ugualmente volentieri quando seppe che l’imperatore lo desiderava.

Al castello avevano fatto grandi preparativi. Le pareti e i pavimenti, che erano di porcellana, brillavano, illuminati da migliaia di lampade d’oro; i fiori più belli, quelli che tintinnavano, erano stati messi lungo i corridoi; c’era un correre continuo e una forte corrente d’aria, e così tutte le campanelline si misero a suonare e non fu più possibile capire niente. In mezzo al grande salone dove stava l’imperatore era stato collocato un trespolo d’oro, su cui l’usignolo doveva posarsi, e poi c’era tutta la corte, e la piccola sguattera aveva avuto il permesso di stare dietro alla porta, dato che era stata insignita del titolo di «sguattera imperiale». Tutti indossavano i loro abiti migliori e tutti guardarono quel piccolo uccello grigio che l’imperatore salutò con un cenno. L’usignolo cantò così deliziosamente che l’imperatore si commosse, le lacrime gli corsero lungo le guance, allora l’usignolo cantò ancora meglio e gli andò dritto al cuore. L’imperatore era così soddisfatto che diede ordine che l’usignolo portasse intorno al collo la sua pantofola d’oro. L’usignolo ringraziò ma disse che aveva già avuto la sua ricompensa. “Ho visto le lacrime negli occhi dell’imperatore, questo è il tesoro più prezioso per me. Le lacrime di un imperatore hanno una potenza straordinaria. Dio sa che sono già stato ricompensato!” E cantò di nuovo con la sua dolcissima voce. “È la più amabile civetteria che io conosca!” dissero le dame di corte e si misero dell’acqua in bocca per fare glug, quando qualcuno avesse rivolto loro la parola, così credevano di essere anche loro degli usignoli. Anche i lacchè e le cameriere cominciarono a essere soddisfatti, e questa non è cosa da poco perché sono le persone più difficili da soddisfare. Sì, l’usignolo portò davvero la gioia! Ora sarebbe rimasto a corte, in una gabbia tutta d’oro e con la possibilità di passeggiare due volte di giorno e una volta di notte. Ebbe a disposizione dodici servitori e tutti avevano un nastro di seta con cui lo tenevano stretto, dato che i nastri erano legati alla sua zampina. Non era certo un divertimento fare quelle passeggiate! Tutta la città parlava di quel meraviglioso uccello, e quando due persone si incontravano uno non diceva altro che: “Usi” e l’altro rispondeva: “Gnolo!” e poi sospiravano comprendendosi reciprocamente; undici figli di droghieri ricevettero il nome di quell’uccello, ma non uno di essi ebbe il dono di cantare bene.

Un giorno arrivò un grande pacco per l’imperatore, con scritto sopra: «Usignolo». “È sicuramente un nuovo libro sul famoso uccello!” esclamò l’imperatore; ma non era un libro, era invece un piccolo oggetto chiuso in una scatola: un usignolo meccanico, che doveva somigliare a quello vivo ma era ricoperto completamente di diamanti, rubini e zaffiri. Non appena lo si caricava, cominciava a cantare uno dei brani che anche quello vero cantava, e intanto muoveva la coda e brillava d’oro e d’argento. Intorno al collo aveva un piccolo nastro su cui era scritto: «L’usignolo dell’imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell’imperatore della Cina». “Che bello!” dissero tutti, e colui che aveva portato quell’usignolo meccanico ebbe il titolo di Portatore imperiale di usignoli. “Ora devono cantare insieme! Chissà che duetto!” Cantarono insieme, ma non andò molto bene, perché il vero usignolo cantava a modo suo, quello meccanico invece funzionava per mezzo di cilindri. “Non è colpa sua!” spiegò il maestro di musica “tiene bene il tempo e segue in tutto la mia scuola!” Così l’usignolo meccanico dovette cantare da solo. Ebbe lo stesso successo di quello vero, ma era molto più bello da guardare: brillava come i braccialetti e le spille. Cantò per trentatré volte sempre lo stesso pezzo e non era affatto stanco; la gente lo avrebbe ascoltato volentieri di nuovo, ma l’imperatore pensò che ora avrebbe dovuto cantare un po’ l’usignolo vero… ma dov’era finito? Nessuno aveva notato che era volato dalla finestra aperta, verso il suo verde bosco. “Guarda un pò!” esclamò l’imperatore; e tutta la corte si lamentò e dichiarò che l’usignolo era un animale molto ingrato. “Ma abbiamo l’uccello migliore!” dissero, e così l’uccello meccanico dovette cantare ancora e per la trentaquattresima volta sentirono la stessa melodia, ma non la conoscevano ancora completamente, perché era molto difficile, il maestro di musica lodò immensamente l’uccello e assicurò che era migliore di quello vero, non solo per il suo abbigliamento e i bellissimi diamanti, ma anche internamente. “Perché, vedete, Signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con l’usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può aprire e si può capire come sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo l’altro.” “È proprio quello che penso anch’io!” esclamarono tutti, e il maestro di musica ottenne il permesso, la domenica successiva, di mostrare l’uccello al popolo. “Anche loro devono sentirlo cantare” disse l’imperatore, e così lo sentirono e si divertirono tantissimo, come si fossero ubriacati di tè, il che è una cosa prettamente cinese. Tutti esclamarono: “Oh!” e alzarono in aria il dito indice, che chiamano «leccapentole», e assentirono col capo. Ma i poveri pescatori che avevano sentito l’usignolo vero, dissero: “Canta bene, e assomiglia all’altro, ma manca qualcosa, anche se non so che cosa!”. Il vero usignolo venne bandito da tutto l’impero. L’uccello meccanico fu posto su un cuscino di seta vicino al letto dell’imperatore; tutti i regali che aveva ricevuto, oro e pietre preziose, gli furono messi intorno, e gli fu dato il titolo di «Cantore imperiale da comodino»; nel protocollo fu messo al primo posto a sinistra, perché l’imperatore considerava quel lato più nobile, essendo il lato del cuore: e anche il cuore di un imperatore infatti sta a sinistra. Il maestro di musica scrisse venticinque volumi sull’uccello meccanico, molto eruditi e lunghi e espressi con le parole cinesi più difficili, che tutti dissero di aver letto e capito, perché altrimenti sarebbero parsi sciocchi e sarebbero stati picchiati sulla pancia.

Passò così un anno intero; l’imperatore, la corte e tutti gli altri cinesi conoscevano ogni minimo suono della canzone dell’uccello meccanico, e proprio per questo pensavano che fosse così bella: infatti potevano cantarla anche loro, insieme all’uccello, e così facevano. I ragazzi di strada cantavano: “Zi zi zi! glu glu glu!” e lo stesso cantava l’imperatore. Era proprio bello! Ma una sera, mentre l’uccello meccanico cantava meglio che poteva, e l’imperatore era a letto a ascoltarlo, si sentì svup!; nell’uccello era saltato qualcosa: trrrr! tutte le ruote girarono, e poi la musica si fermò. L’imperatore balzò fuori dal letto e chiamò il suo medico, ma a che cosa poteva servire? Allora chiamò l’orologiaio che, dopo molti discorsi e visite, rimise in sesto in qualche modo l’uccello, ma disse che bisognava risparmiarlo il più possibile, perché aveva i congegni consumati e non era possibile metterne di nuovi senza rischiare di rovinare la musica. Fu un grande dolore! Si poteva far suonare l’uccello meccanico solo una volta l’anno, e con fatica, ma il maestro di musica tenne un discorso con parole difficili e disse che tutto era uguale a prima, e difatti tutto fu uguale a prima.

Passarono cinque anni e tutto il paese ebbe un grande dolore perché in fondo tutti amavano il loro imperatore; e lui era malato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva; un nuovo imperatore era già stato scelto e il popolo si riuniva per la strada e chiedeva al luogotenente come stava il loro imperatore. “P!” diceva lui scuotendo il capo. L’imperatore stava pallido e gelido nel suo grande e meraviglioso letto. Tutta la corte lo credeva morto e tutti corsero a salutare il nuovo imperatore; i servitori uscirono per parlare dell’avvenimento e le cameriere s’erano trovate in compagnia per il caffè. In tutti i saloni e i corridoi erano stati messi a terra dei drappeggi, affinché non si sentisse camminare nessuno, e per questo motivo c’era silenzio, molto silenzio. Ma l’imperatore non era ancora morto; rigido e pallido stava nel suo bel letto con le lunghe tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati. In alto c’era la finestra aperta e la luna illuminava l’imperatore e l’uccello meccanico. Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s’era messa in testa la sua corona d’oro. In una mano teneva la spada d’oro e nell’altra una splendida insegna; tutt’intorno, dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre molto dolci: erano tutte le azioni buone e cattive dell’imperatore, che lo guardavano, ora che la morte poggiava sul suo cuore. “Ti ricordi?” sussurrarono una dopo l’altra. “Ti ricordi?” e gli raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte. “Non l’ho mai saputo!” diceva l’imperatore. “Musica musica, il grande tamburo cinese!” gridava “per non sentire quello che dicono!” Ma loro continuarono e la morte faceva di sì con la testa a tutto quello che veniva detto. “Musica! Musica!” gridò l’imperatore. “Tu, piccolo uccello d’oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro e oggetti preziosi, ti ho appeso personalmente la mia pantofola d’oro al collo, canta dunque, canta!” Ma l’uccello stava zitto, non c’era nessuno che lo caricasse e quindi non poteva cantare. La morte invece continuò a guardare l’imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in un silenzio spaventoso. In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva sentito delle sofferenze dell’imperatore e era accorso per infondergli col canto consolazione e speranza. Mentre lui cantava, quelle immagini diventavano sempre più tenui, il sangue si mise a scorrere con più forza nel debole corpo dell’imperatore, e la morte stessa si mise a ascoltare e disse: “Continua, piccolo usignolo, continua!”. “Solo se mi darai la bella spada d’oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la corona dell’imperatore!” E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l’usignolo continuò a cantare, e cantò del tranquillo cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l’albero di sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva innaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti; allora la morte sentì nostalgia del suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori dalla finestra. “Grazie, grazie!” disse l’imperatore. “Piccolo uccello celeste, ti riconosco! Ti avevo bandito dal mio regno e ciò nonostante col tuo canto hai allontanato le cattive visioni dal mio letto, e hai scacciato la morte dal mio cuore. Come potrò ricompensarti?” “Mi hai già ricompensato!” rispose l’usignolo. “Ho avuto le tue lacrime la prima volta che ho cantato per te, non lo dimenticherò mai! Questi sono i gioielli che fanno bene al cuore di chi canta! Ma adesso dormi e torna a essere forte e sano: io canterò per te.” Cantò di nuovo, e l’imperatore cadde in un dolce sonno, in un sonno tranquillo e ristoratore. Il sole entrava dalla finestra quando lui si svegliò, guarito e pieno di forza; nessuno dei suoi servitori era ancora tornato perché credevano che fosse morto, ma l’usignolo era ancora lì a cantare. “Dovrai restare con me per sempre!” disse l’imperatore. “Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l’uccello meccanico.” “Non farlo!” gridò l’usignolo. “Ha fatto tutto il bene che poteva. Conservalo come prima. Io non posso vivere al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, perché tu possa essere felice e riflettere un po’. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del male intorno a te che ti viene tenuto nascosto. L’uccellino che canta vola ovunque, dal povero pescatore alla casa del contadino, da tutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte. Io amo il tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a cantare per te! Ma mi devi promettere una cosa.” “Qualunque cosa!” rispose l’imperatore, ritto negli abiti imperiali che aveva indossato da solo, la pesante spada d’oro sul cuore. “Ti chiedo una sola cosa! Non raccontare a nessuno che hai un uccellino che ti riferisce tutto, così le cose andranno molto meglio!” E l’usignolo volò via. I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto; restarono impalati quando l’imperatore disse: “Buongiorno!”

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