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Contro una delle forme di leucemia più aggressive che possono colpire i bambini, la leucemia linfoblastica acuta, un ruolo importante potrebbe giocare una proteina, la proteina Che-1, di norma presente nell’organismo umano (serve alla sopravvivenza stessa delle cellule), ma presente in quantità più elevate della norma nei piccoli affetti da questa malattia. L’ipotesi è di alcuni studiosi dell’Istituto Regina Elena e dell’ospedale Bambino Gesù di Roma.
Al centro dell’indagine
La leucemia linfoblastica acuta è causata dall’eccesso di cellule immature precursori dei linfociti nel midollo osseo e si cura con cicli di chemioterapia, che danno spesso elevati tassi di successo. Ciononostante la leucemia linfoblastica acuta resta una delle principali responsabili di decesso per tumori nella popolazione infantile. Per questo molti studi stanno cercando di identificare i meccanismi genetici e biologici all’origine del tumore.
Già nota per altri tumori
La proteina Che-1, insieme a un’altra sostanza, sarebbe stata individuata dagli scienziati come importante marcatore di questa leucemia: è coinvolta nel controllo della proteina p53 e ha un ruolo noto nello sviluppo dei tumori solidi, ma non era conosciuto ancora il suo coinvolgimento nel settore delle leucemie.
Presente in quasi tutti i bambini malati
Analizzando 80 bambini con leucemia linfoblastica acuta, gli studiosi romani sono risaliti alla proteina Che-1, scoprendone il meccanismo d’azione nei confronti dei linfociti, gli elementi cellulari da cui si sviluppa la malattia. In circa il 90% dei bambini affetti da questa forma di leucemia, la proteina risulta presente in quantità elevate. Il suo livello si normalizza quando c’è una remissione della malattia, ma i valori tornano sopra la soglia di allarme al momento di un’eventuale recidiva.
Importante per nuove cure
Gli scienziati hanno così concluso che l’inibizione di questa proteina può bloccare la crescita delle cellule B precursori della leucemia e aumenta le probabilità di successo della chemioterapia. Queste scoperte potrebbero in futuro aprire la strada a trattamenti sempre più mirati soprattutto per quei bambini che non rispondono agli attuali trattamenti antitumorali.