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Le storie delle cicogne
Le cicogne raccontano ai loro piccoli moltissime fiabe, tutte sulla palude o sul pantano, e sono normalmente adeguate all’età e alla capacità di comprensione; i più piccoli dei cicognini sono contenti quando vi si dice «cric, crac, melmamalma!», lo trovano eccellente, ma i più grandi vogliono un significato più profondo, o almeno qualcosa sulla famiglia. Tra le due storie più antiche e più lunghe conservate dalle cicogne, ne conosciamo tutti una, quella di Mosè che fu messo da sua madre nelle acque del Nilo, e fu trovato dalla figlia del re. Ebbe una buona educazione e diventò un grand’uomo, di cui poi non si è saputo dove venne sepolto. Questa la conoscono tutti. L’altra fiaba non è ancora nota, forse perché è ancora rimasta nazionale. Questa fiaba è passata da mamma cicogna a mamma cicogna per mille anni e ciascuna di loro l’ha raccontata sempre meglio, e noi la raccontiamo nel modo migliore in assoluto.
La Palude selvatica
La prima coppia di cicogne che la portò e che la visse, passava l’estate sulla casa fatta di travi del vichingo su dalle parti della palude selvatica di Vildmose (nella zona settentrionale dello Iutland, il Vendsyssel). Era nella provincia di Hjœring, su verso la punta di Skagen nello Iutland, se dovessimo parlare in modo scientifico. È ancora una palude estremamente grande, se ne può leggere la descrizione nella relazione sul territorio. Vi è scritto che qui c’è stato il fondo del mare, ma esso si è sollevato; si estende per miglia in tutte le direzioni circondato da prati bagnati e da stagni malsicuri, con torbiere, more selvatiche e miseri alberi; è quasi sempre coperta dalla nebbia e settant’anni fa vi erano ancora i lupi; merita proprio di essere chiamata la “Palude Selvatica” e ci si può immaginare quanto fosse selvatica, quanti acquitrini e quarti laghi c’erano mille anni fa! Sì, nei dettagli si vedeva allora quello che ancora si vede: i giunchi avevano la stessa altezza, lo stesso tipo di foglie allungate e di fiori bruno-violacei in forma di pennacchi che portano ancora la betulla che era con la corteccia bianca e le foglie fini sciolte come ancora adesso, e per quanto riguarda gli esseri viventi che venivano qui: ebbene, la mosca portava la sua veste di velo dello stesso taglio di quello di oggi, il colore naturale della cicogna era il bianco con calze nere e rosse, invece le vesti degli uomini avevano all’epoca un altro taglio rispetto a quello di oggi, ma ognuno di loro, servo o cacciatore, chiunque mettesse piede nella melma, subiva lo stesso destino mille anni fa. E ancora oggi colui che viene qui, cade dentro e scende giù dal Re della Palude, come lo chiamavano, il quale governava giù nel grande regno della palude; Re della Melma si potrebbe anche chiamarlo, ma noi troviamo che sia meglio dire Re della Palude, e anche le cicogne lo chiamavano così. Si sa molto poco sulla sua politica, ma forse è meglio così. Vicino alla palude, attaccato al fiordo di Liim, vi era la casa fatta di travi del vichingo con la cantina di pietra, una torre e tre piani; su in cima al tetto la cicogna aveva costruito il suo nido, dove mamma cicogna covava le uova ed era sicura che sarebbero riuscite bene.
La principessa vestita da cigno
Una sera papà cicogna rimase fuori fino a tardi e quando tornò a casa aveva un’aria scapigliata e affrettata. «Ti devo raccontare qualcosa di terribile!» egli disse a mamma cicogna. «Non farlo!» ella disse, «ricordati che sto covando, mi potrebbe fare del male e allora le uova ne risentono!» «Devi saperlo!» egli disse. «È arrivata qui la figlia del nostro padrone di casa in Egitto. Ella ha osato viaggiare fin qui! E ora è sparita!» «Ella che è della stirpe delle fate! Ma racconta! Sai che non sopporto di aspettare in questo periodo perché sto covando!» «Ebbene guarda, mamma! Ella ha creduto alla stessa cosa che disse il medico e che tu mi raccontasti; ha creduto che la ninfea bianca potesse aiutare suo padre malato ed è volata vestendo la spoglia di piume insieme alle altre due principesse vestite di piume che ogni anno dovevano venire qui al Nord per fare il bagno e ringiovanire! È venuta ed è sparita!» «La fai così lunga!» disse mamma cicogna, «le uova potrebbero prendere un raffreddore! non sopporto di stare sulle spine!» «Sono stato attento!» disse papà cicogna, «e questa sera, mentre camminavo tra i giunchi laddove la melma mi regge, arrivarono tre cigni, vi era qualcosa nell’andatura che mi disse: stai attento, non è un vero cigno, sono soltanto spoglie di cigno! Tu la conosci quella sensazione, mamma! Sai come me, qual è la cosa giusta!» «Certo!» ella disse, «ma raccontami della principessa! non voglio sentire più niente delle spoglie di cigno!» «Sai che qui in mezzo alla palude c’è una specie di lago,» disse papa cicogna, «ne vedi un pezzetto se ti alzi; lì accanto ai giunchi e alla melma verde, vi era un grande ceppo di ontano; i tre cigni si sedettero su di esso battendo le ali e guardandosi attorno. Uno di loro gettò via le spoglie di cigno e riconobbi in lei la principessa della nostra casa in Egitto: eccola seduta là senza nessun altro manto se non i suoi lunghi capelli neri. Ella pregò, sentii, gli altri due di aver cura della spoglia di cigno quando si sarebbe tuffata giù nell’acqua per cogliere il fiore che pensava di vedere. Loro fecero segno di sì con la testa, si sollevarono alzando il leggero vestito di piume. ‘Chissà cosa vogliono fare’, pensai, ed ella chiese loro, credo, la stessa cosa ed ebbe una risposta, una prova chiara: si sollevarono nell’aria con la sua spoglia di piume. “Ebbene tuffati!” gridarono, “non volerai mai più sotto la spoglia di un cigno, non vedrai mai più il paese d’Egitto! Mettiti seduta nella Palude Selvatica!”, e poi strapparono la sua spoglia di piume in cento pezzi facendo volare le piume dappertutto come se nevicasse, e le due principesse infami se ne volarono via!» «È orrendo!» disse mamma cicogna, «non lo posso sentire! Dimmi allora, cosa successe poi?» «La principessa si lamentò e pianse! Le lacrime correvano giù sul ceppo di ontano e così questo si mosse poiché era il Re della Palude in persona, colui che abita nella palude. Io vidi come il ceppo si rigirò e poi il ceppo non ci fu più, spuntarono lunghi rami coperti di fango, come braccia; allora la povera bambina si spaventò e corse via verso la melma malsicura, ma lì non regge me, ancor meno lei, ella sprofondò immediatamente e con lei sprofondò anche il ceppo, era lui a tirare. Vennero fuori grandi bolle nere e poi non vi furono più tracce. Ora ella è sepolta nella Palude Selvatica, non tornerà mai più col fiore nel paese d’Egitto. Non avresti potuto sopportarne la vista, mamma!» «Non dovresti nemmeno raccontare cose così in questo periodo! Lo sai che le uova potrebbero risentirne! La principessa si salverà probabilmente! Troverà facilmente aiuto! Fossi stata io o te oppure uno dei nostri, sarebbe stata la fine!» «Voglio però guardare tutti i giorni!» disse papà cicogna e così fece.
La strana ninfea
Ora passò molto tempo. Un giorno allora egli vide che giù in basso dal fondale venne fuori un gambo verde e quando ebbe raggiunto lo specchio dell’acqua crebbe una foglia, che si fece sempre più larga; vicino a essa venne un bocciolo e quando una mattina la cicogna lo sorvolò il bocciolo del fiore si aprì sotto i forti raggi del sole e al centro di esso vi era un esserino delizioso, una piccola bambina, come se ella fosse uscita dal bagno. Assomigliava così tanto alla principessa d’Egitto che la cicogna in un primo tempo pensò che fosse lei che si era fatta piccola, ma quando poi vi rifletté, trovò più ragionevole che fosse la bambina di lei e del Re della Palude: ecco perché stava in una ninfea. “Ma non può rimanere lì!” pensò la cicogna, “Nel mio nido siamo già così tanti, ma qualcosa mi verrà in mente. La moglie del vichingo non ha figli, ricordo che desiderava avere un piccolo, tant’è che mi danno l’incarico di portare i piccoli: per una volta voglio ora farlo sul serio! Volo dalla moglie del vichingo con la bambina; ne saranno contenti!” E la cicogna prese la piccola bambina e volò alla casa fatta di travi; fece col becco un buco nel vetro fatto con la pelle di vescica di maiale, depose la bambina vicino al petto della moglie del vichingo, e se ne volò poi a casa da mamma cicogna per raccontare, e anche i piccoli ascoltarono, poiché erano abbastanza grandi per farlo. «Ebbene vedi, la principessa non è morta: ha mandato la piccola quassù affinché fosse sistemata!» «L’ho detto fin dall’inizio!» disse mamma cicogna, «Ma ora devi pensare un po’ ai tuoi cari. Si avvicina l’ora del viaggio; ogni tanto incomincio a sentire il solletico sotto le ali! Il cuculo e l’usignolo sono già partiti e sento dire le quaglie che avremo ben presto un buon vento in poppa. I nostri piccini faranno bella figura alle manovre, se li conosco bene!» Ebbene, come fu felice la moglie del vichingo quando la mattina si svegliò trovando vicino al suo petto la deliziosa piccola bambina; ella la baciò e l’accarezzò, ma questa pianse terribilmente, dimenandosi con le braccia e le gambe: non sembrava per niente contenta. A forza di piangere finì con l’addormentarsi e stando lì era deliziosissima da vedere. La moglie del vichingo fu tanto felice, tanto leggera, tanto florida, che ebbe la sensazione che ora sarebbe venuto suo marito con tutti i suoi uomini altrettanto all’improvviso quanto la piccola e allora lei e tutta la casa avrebbero avuto da fare per preparare tutto. Furono appese le lunghe tappezzerie colorate che lei e le ragazze avevano tessuto con le immagini dei loro idoli, Odino, Thor e Freia come venivano chiamati. I servi dovettero pulire i vecchi scudi che servivano come decorazione, furono messi cuscini sulle panche e legna secca sul focolare in mezzo alla sala, in modo da poter accendere immediatamente il fuoco. La moglie del vichingo diede una mano anche lei sicché la sera tardi era molto stanca e dormì bene.
L’orrendo batrace
Ora quando sul mattino ella si svegliò, si spaventò profondamente, poiché la bambina era del tutto sparita; ella saltò dal letto, prese una stecca di pino e si guardò attorno e c’era, là dove ella allungò i suoi piedi nel letto, non la piccola bambina, ma un grande, orrendo batrace; ella ne fu profondamente disgustata, prese una grande asta con l’intento di uccidere la rana ma questa la guardò con occhi così strani e tristi che non riuscì a colpirla. Ancora una volta ella si guardò attorno, la rana fece un gracidio fine e pietoso, ella ne trasalì e saltò dal letto per correre allo sportellino, che aprì con un colpo secco; in quell’istante il sole apparì, gettando i suoi raggi all’interno direttamente sul letto e sul grande batrace e fu d’un colpo come se la bocca larga del mostro si contraesse per diventare piccola e rossa, le membra si stirarono per prendere una forma piacevole: era la sua propria piccola bambina deliziosa che stava lì e non una orrenda rana. «Ma che cos’è!» ella disse, «ho fatto un brutto sogno? Ma questa che sta sdraiata qui non è altro che la mia deliziosa bambina degli elfi!» ed ella la baciò e la tenne stretta al cuore, ma questa tirò e morse tutto intorno a sé come un gattino selvatico. Il capo vichingo non venne quel giorno, né quello seguente; sebbene fosse per strada, il vento era contrario, esso soffiava verso Sud per aiutare le cicogne. Il vantaggio per gli uni è lo svantaggio per gli altri. Nel giro di un paio di giorni e di notti la moglie del vichingo riuscì a capire come stavano le cose con la sua piccola bambina, su di lei aleggiava infatti un terribile incantesimo. Di giorno ella era deliziosa come un elfo del cielo, ma di notte aveva una natura cattiva e selvatica, era invece un orrendo batrace, silenzioso e piangente, con gli occhi tristi. In lei vi erano due nature che si alternavano, all’esterno, come all’interno; questo perché la piccola bambina che la cicogna aveva portato aveva di giorno l’aspetto esteriore della sua vera madre e in quel momento la personalità di suo padre. Al contrario, durante la notte, la parentela con lui diventava visibile nelle fattezze del corpo, però all’interno brillavano allora l’animo e il cuore della madre. Chi mai avrebbe potuto sciogliere questa forza della magia nera? La moglie del vichingo provò angoscia e tristezza per questo, eppure il suo cuore si sentì legato a quella povera creatura, della cui condizione ella non pensava di osare raccontare a suo marito quando egli ben presto sarebbe tornato a casa, poiché egli probabilmente, come era di consuetudine, avrebbe posto la povera bambina sulla pubblica via e l’avrebbe lasciata a chi se la voleva prendere. La remissiva moglie del vichingo non aveva il cuore di farlo, così decise che suo marito avrebbe visto la bambina soltanto durante il giorno.
Chi va via e chi torna
Una mattina le ali delle cicogne frusciarono sopra il tetto; si erano riposate la notte lì sopra più di cento coppie di cicogne dopo le grandi manovre, e ora si alzarono per volare verso Sud. «Tutti gli uomini pronti!» si sentì, «compresi mogli e figli!» «Mi sento così leggero!» dissero le piccole cicogne, «sento tutto un formicolio fin giù nelle gambe come se fossi pieno di rane vive! Com’è bello dover andare all’estero!» «Rimanete in gruppo!» dissero mamma e papà, «e non chiacchierate troppo, toglie il respiro!» E se ne volarono via. Nello stesso istante il corno vichingo risuonò sulla brughiera, il vichingo era arrivato con tutti i suoi uomini; tornavano a casa con un ricco bottino dalla costa gallica dove il popolo, come in Cornovaglia, cantava nel suo spavento: «Liberaci dai selvaggi Normanni!». Oh, come vi fu allegria nella fortezza dei vichinghi vicino alla Palude Selvatica! Venne portata nella sala la vasca con l’idromele, fu acceso il fuoco e si macellarono cavalli; c’era davvero da cuocere in grande. Il sacrificatore cosparse col caldo sangue dei cavalli i servi per consacrarli; il fuoco crepitava, il fumo passava sotto il soffitto, la fuliggine gocciava giù dalla trave, ma tutti erano abituati a questo. Ospiti furono invitati, i quali ricevettero bei regali, si erano dimenticate insidie e perfidie; si bevve molto e si buttarono in faccia le osse rosicchiate, era segno di buonumore. Lo scaldo (una specie di suonatore ambulante, ma allo stesso tempo uomo di guerra) era stato con loro e fece loro una piccola canzone in cui ascoltarono tutte le loro imprese di guerra e tutte le stranezze. A ogni strofa tornava lo stesso ritornello:
“La fortuna muore, i parenti muoiono, ognuno muore allo stesso modo, ma un bel nome non muore mai!”
e battevano allora tutti sugli scudi e martellavano il piano della tavola con un coltello o con un osso in modo da farsi sentire. La moglie del vichingo stava seduta sulla panca trasversale nella grande sala dei conviti. Portava una veste di seta, bracciali d’oro e grandi perle di ambra; era vestita in grande pompa e lo scaldo parlò anche di lei nella sua canzone, parlò del suo tesoro d’oro che ella aveva dato a suo marito benestante e quest’ultimo fu molto felice di questa deliziosa bambina. Egli l’aveva soltanto vista di giorno in tutto il suo splendore, ma apprezzò il suo lato selvatico: ella poteva diventare, egli disse, una guerriera terribile che batté il suo gigante! Ella non avrebbe battuto ciglio quando una mano esperta, per scherzo, avesse tagliato il suo sopracciglio con la spada affilata. La vasca di idromele fu vuotata, una nuova fu portata su, si bevve moltissimo, era gente che sopportava il bicchiere pieno. Una volta vi fu il detto: “Il bestiame sa quando deve tornare dal pascolo, ma l’uomo imprudente non conosce mai la misura del suo stomaco”. Sì, questo si sapeva, ma si sa una cosa e se ne fa un’altra! si sapeva pure che “La persona cara diventa noiosa quando siede troppo tempo in casa di altri”. Però si rimase lo stesso lì, carne e idromele sono una cosa buona! Vi era allegria, e la notte i servi dormirono nelle calde ceneri, mettendo le dita nella grassa fuliggine leccandole. Erano bei tempi! Ancora una volta quell’anno il vichingo partì per una spedizione, sebbene incominciassero le tempeste autunnali; egli andò con i suoi uomini fino alla costa della Cornovaglia, vi era semplicemente da “attraversare l’acqua”, egli disse, e sua moglie rimase a casa con la piccola bambina ed era certo che la madre adottiva preferiva quasi il povero batrace con gli occhi devoti e i profondi sospiri che non la bella creatura che tirava e mordeva tutt’attorno a sé.
In Egitto
La nebbia autunnale pungente e bagnata, chiamata «Senza Parola» nei vecchi indovinelli popolari, che rode le foghe, era sospesa sopra il bosco e la brughiera; l’«Uccello senza piume», come viene chiamata la neve, volava tutta fitta, e l’inverno era in arrivo. I passeri occuparono il nido delle cicogne e ragionavano a modo loro sui signori assenti; proprio loro, la coppia di cicogne con tutti i loro piccoli, dov’erano adesso? Le cicogne erano ora nella terra d’Egitto dove il sole caldo brillava come da noi durante un bel giorno d’estate, i tamarindi e le acacie fiorivano dappertutto, la luna di Maometto brillava tutta lucida dalle cupole dei templi; sulle torri esili stavano parecchie coppie di cicogne a riposarsi dopo il lungo viaggio; interi grandi gruppi avevano un nido accanto all’altro sulle grandi colonne e sugli archi in rovina di templi e in posti dimenticati; la palma da dattero sollevava la sua tettoia molto in alto come se volesse fare da visiera. Le piramidi grigio-bianche erano come silhouette nell’aria limpida verso il deserto dove lo struzzo faceva vedere di saper utilizzare le sue gambe e il leone stava con grandi occhi intelligenti a guardare la sfinge di marmo mezza sepolta nella sabbia. Le acque del Nilo si erano ritirate, tutto il letto del fiume formicolava di rane e questo, bisogna dirlo, era per la nostra famiglia di cicogne lo spettacolo più bello in questo paese. I piccoli credevano che fosse tutto un abbaglio degli occhi, tanto trovavano il tutto meraviglioso. «Qui è tutto così, e stiamo sempre così nel nostro paese caldo!» disse mamma cicogna e i piccoli sentivano un formicolare negli stomaci. «Vedremo ancora di più?» dissero, «dobbiamo penetrare ancora molto nel paese?» «Non c’è niente di speciale da vedere!» disse mamma cicogna, «sul bordo fertile c’è soltanto la foresta dove gli alberi crescono unendosi e sono aggrovigliati fra di loro dalle piante rampicanti spinose, soltanto gli elefanti con le loro gambe pesanti possono farsi strada tra loro; i serpenti sono troppo grandi per noi e le lucertole troppo allegre. Se volete andare dalla parte del deserto, vi viene la sabbia negli occhi, che le cose vadano bene o che le cose vadano male vi ritroverete in un vortice di sabbia; no, il miglior posto per stare è questo! Qui vi sono le rane e le cavallette. Qui rimango io e voi con me!» Ed essi rimasero; i vecchi stavano nel loro nido sull’esile minareto, riposandosi eppure tutti indaffarati a lisciarsi le piume e a grattare col becco sulle calze rosse; poi alzarono il collo, salutando con solennità e sollevarono la testa con la fronte alta e le piume fini e lisce e i loro occhi marroni brillavano d’intelligenza. Le piccole cicogne femmine giravano solennemente tra i giunchi succulenti, guardando con la coda dell’occhio le altre piccole cicogne, facevano conoscenza e inghiottivano a ogni tre passi una rana, oppure giravano ciondolando con un piccolo serpente, faceva bella figura, pensavano, ed era buono da mangiare. I piccoli maschi litigavano, dandosi colpi con le ali, colpi col becco, sì, anche fino a ferirsi e poi si fidanzava uno e poi si fidanzava un altro, i piccoli maschi e le piccole femmine cicogne, era infatti per questo che esistevano; e costruivano il nido e poi si litigavano di nuovo poiché nei paesi caldi sono tutti tanto irascibili, ma era divertente e soprattutto una grande gioia per i vecchi: tutto si addice ai propri figli! Tutti i giorni vi era il sole, tutti i giorni abbondanza di cibo, si poteva pensare unicamente al diletto. Ma dentro al ricco castello dal padrone di casa egiziano, come lo chiamavano, questo non era per niente di casa. Il ricco e potente signore giaceva sulla panca per riposare, rigido in tutte le sue membra, steso come una mummia, in mezzo alla grande sala con le pareti variopinte; era come se egli giacesse in un tulipano. I parenti e i servitori stavano intorno a lui; morto non era, ma non si poteva nemmeno dire, a essere esatti, che vivesse. Il fiore liberatore della palude dei paesi del Nord, quello che andava cercato e colto dalla persona che più lo amava, non sarebbe mai stato portato.
Dall’amore nasce la vita
La sua giovane e bella figlia, che sotto la spoglia del cigno volò sopra i mari e sopra le terre, su verso Nord, non sarebbe mai tornata. «Ella era morta e sepolta!» avevano annunziato le due damigelle cicogne che erano tornate a casa; si erano inventate tutta una storia su di questo, e la raccontarono. «Menzogne, tutte invenzioni!» egli disse. «Mi verrebbe la voglia di perforarle il petto con il naso!». «E poi lo romperesti!» disse mamma cicogna, «saresti bello da vedere! Pensa prima a te stesso e poi alla tua famiglia, tutto il resto rimane fuori!» «Mi voglio però mettere sul bordo della grande cupola domani, quando tutti gli eruditi e i saggi si riuniscono per parlare del malato; forse allora si potrebbero avvicinare un po’ di più alla verità!» E gli eruditi e i saggi si riunirono e parlarono molto di tante cose che non potevano servire alla cicogna, e nemmeno il malato ne poté cavare niente, né la figlia nella Palude Selvatica; però possiamo ascoltarlo lo stesso un po’, ci sono tante cose che si è obbligati ad ascoltare. Ma ora è giusto ascoltare e sapere anche gli antefatti, così seguiamo meglio la storia, almeno altrettanto bene quanto papà cicogna. «Dall’amore nasce la vita! Dall’amore più eccelso nasce la vita più eccelsa. Soltanto attraverso l’amore egli può trovare salvezza nella vita!» si era detto ed era estremamente saggio e ben detto, assicurarono gli eruditi. «È un bel pensiero!» disse immediatamente papà cicogna. «Non lo capisco bene!» disse mamma cicogna, «e non è colpa mia, ma colpa del pensiero, ma poi in fondo fa lo stesso, ho altro a cui pensare!» E ora i saggi avevano parlato dell’amore tra questo e quello, delle differenze che c’erano, dell’amore come veniva provato dai fidanzati e di quello tra genitori e figli, di quello tra la luce e le piante, di come i raggi del sole baciavano il fango facendo venire fuori il germoglio. Fu presentato in modo tanto ampio ed erudito che per papà cicogna fu impossibile seguire, per non parlare poi di ripeterlo; egli divenne tutto pensieroso per questo, chiuse gli occhi a metà e si tenne su una sola gamba per una giornata intera dopo di ciò; per lui la scienza era tanto pesante da reggere. Però papà cicogna capì una cosa, aveva sentito gente inferiore e gente molto distinta che parlò direttamente col cuore e disse che era una grande disgrazia per migliaia e pure per il paese che quell’uomo stesse male senza poter guarire; sarebbe stata la gioia e la benedizione se egli avesse ritrovato la sua salute. «Ma dove cresce il fiore della sua salute?» Chiedevano tutti, a scritti eruditi, alle stelle che luccicavano, a tutti i tempi e a tutte le stagioni; l’avevano chiesto per tutte le vie indirette esistenti, e alla fine gli eruditi e i saggi avevano ricavato questo, come detto: «Dall’amore nasce la vita, la vita per il padre», e con questo dissero più di quello che essi stessi fossero in grado di capire; ripeterono e scrissero come ricetta medica: «Dall’amore nasce la vita», ma come mettere insieme tutta quella cosa secondo la ricetta, ebbene lì si fermarono. Alla fine furono d’accordo che l’aiuto doveva venire dalla principessa, colei che con tutta la sua anima e tutto il suo cuore amava questo padre. Si finì anche col trovare come farlo, oramai sono passati anni da allora, di notte, quando la luna nuova che si era accesa fu di nuovo andata giù, ella sarebbe andata dalla sfinge di marmo ai limiti del deserto, avrebbe gettato via la sabbia dalla porta del piedistallo e lì avrebbe attraversato il lungo corridoio che conduceva al centro di una delle grandi piramidi dove uno dei potenti re dell’antichità giaceva in un involucro da mummia circondato da fasto e magnificenza; qui ella avrebbe appoggiato la sua testa contro il morto e allora le sarebbe stato rivelato dove trovare la vita e la salvezza per suo padre. Ella aveva fatto tutto questo e dal sogno aveva saputo di dover portare a casa dalla palude profonda su nelle terre danesi (il luogo era stato indicato dettagliatamente) il fior di loto che nelle profondità delle acque avrebbe toccato il suo petto, ed egli si sarebbe salvato. Ed ecco perché ella era volata sotto la spoglia di cigno dal paese d’Egitto su fino alla palude selvatica. Ebbene, tutto questo papà cicogna e mamma cicogna lo sapevano e ora noi lo sappiamo con più esattezza di quanto lo sapessimo prima. Sappiamo che il Re della Palude l’attrasse a sé, sappiamo che per tutti a casa sua ella era morta e sepolta. Soltanto il più saggio di tutti loro diceva ancora come mamma cicogna: “ella si salverà sicuramente!” e decisero di aspettare che ciò avvenisse, poiché non sapevano fare niente di meglio. «Credo che ruberò le spoglie di cigno delle due principesse infami!» disse papà cicogna, «così almeno non andranno alla Palude Selvatica a farci del male; queste spoglie di cigno le nasconderò lassù fino al momento in cui serviranno!» «Le nascondi lassù, dove?» chiese mamma cicogna. «Nel nostro nido sulla Palude Selvatica!» egli disse. «Io e i nostri figli più piccoli potremmo aiutarci a vicenda per portarcele e se diventa troppo complicato per noi ci sono tanti posti per strada per nasconderle fino alla prossima migrazione. Una spoglia di cigno dovrebbe bastare per lei, ma due è meglio, è bene avere molti vestiti da viaggio in un paese nordico!» «Non ti ringrazieranno certo per questo!» disse mamma cicogna, «ma sei tu padrone dì scegliere! Io non ho niente da dire tranne nel periodo della covatura!»
Helga
Nella fortezza dei vichinghi vicino alla Palude Selvatica, dove le cicogne andavano nel loro volo verso la primavera, la piccola bambina aveva avuto un nome: Helga l’avevano chiamata; ma questo nome era troppo soave per un animo come quello della deliziosissima creatura; mese dopo mese esso si fece sempre più palese e col passar degli anni. Mentre le cicogne facevano tutti gli anni lo stesso viaggio (in autunno verso il Nilo, in primavera verso la Palude Selvatica), la piccola bambina divenne una ragazza grande e prima che se ne rendessero conto fu una deliziosa fanciulla nel suo sedicesimo anno di età; dalla buccia deliziosa, ma dal nocciolo duro e acerbo, più selvatica della maggior parte della gente in questi tempi duri e bui. Era per lei un piacere spruzzare con le sue mani bianche il sangue fumante del cavallo immolato per il sacrificio; nella sua ferocia ella morse selvaggiamente, fino a spezzarlo in due, il collo del gallo nero, che il sacrificatore doveva uccidere, e diceva in tutta serietà al suo padre adottivo: «Se dovesse venire il tuo nemico e attaccasse la corda intorno all’estremità sporgente della trave del tetto, sollevandolo sopra la tua testa mentre dormi, non ti sveglierei anche se potessi! non lo sentirei, tanto il sangue ronza ancora nell’orecchio sul quale tu anni fa mi desti uno schiaffo, tu! Mi ricordo!». Ma il vichingo non credette a quelle parole: egli era, come gli altri, incantato dalla sua bellezza; non sapeva nemmeno di come cambiavano l’anima e la pelle nella piccola Helga. Ella stava senza sella come radicata al cavallo, che correva a tutta velocità, e non saltava giù anche se esso si batteva a morsi con gli altri cavalli cattivi. Con tutti i suoi vestiti si buttava spesso giù dal pendio nelle forti correnti del fiordo e veniva incontro al vichingo a nuoto quando la sua barca andava verso terra. Ella si tagliava il ricciolo più grande dei suoi lunghi capelli per farne una treccia e servirsene come corda per il suo arco: «Chi vuole vada e chi non vuole mandi!» ella disse. La moglie del vichingo era secondo i tempi e le abitudini abbastanza forte di volontà e d’animo, ma paragonata alla figlia assomigliava a una donna tenera e piena di angoscia; ella sapeva però anche che era l’incantesimo a pesare sulla terribile bambina. Era come se a Helga, per puro cattivo divertimento, un po’ troppo spesso venisse in mente, quando la mamma stava sul balcone oppure usciva nel cortile, di mettersi sul bordo del pozzo, gesticolando con le braccia e le gambe per poi lasciarsi cadere pesantemente giù nel buco stretto e profondo dove ella, dalla natura di rana, riappariva sollevandosi di nuovo, risalendo a quattro zampe, come se fosse un gatto, e veniva fradicia di acqua nella grande sala sicché le foglie verdi sparse per terra si rigiravano nella corrente bagnata.
Lo strano sortilegio
Però c’era un legame che vincolava la piccola Helga: era l’imbrunire della sera; allora ella si faceva silenziosa e come pensierosa, lasciandosi chiamare e condurre. Allora una specie di sensazione interna la attraeva verso la mamma e quando il sole tramontava con la conseguente trasformazione esterna e interna, stava lì tranquilla, triste, raggranchiata nella forma del batrace, con il corpo molto più grande di quello di quest’animale, ma proprio per questo tanto più orrido. Ella aveva l’aria di un nano pietoso con la testa dì rana e una membrana tra le dita. Vi era qualcosa di così triste in quegli occhi con i quali guardava, non aveva la voce, soltanto un gracchiare cavo, come un bambino che piange nel sogno; allora la moglie del vichingo se la poteva prendere in grembo, ella dimenticava la forma orrenda, guardando soltanto gli occhi tristi dicendo più di una volta: «Potrei quasi desiderare che tu rimanessi esclusivamente la mia muta bambina rana; sei ancora più orrenda da vedere quando la bellezza è girata in fuori!». Ed ella scrisse le rune contro la magia nera e contro la malattia, buttandole sulla miserella, ma non si ebbero miglioramenti. «Non si sarebbe mai creduto che ella era stata tanto piccola da stare in una ninfea!» disse papà cicogna. «Ora è una vera persona umana e assomiglia alla sua mamma egiziana da giovane; lei non l’abbiamo più rivista da allora! Ella non si salvò come sia te che e il più saggio degli eruditi pensavate. Anno dopo anno ho sorvolato la Palude Selvatica in tutti i sensi, ma ella non diede mai un segno di vita! Sì, questo te lo posso dire, in quegli anni in cui sono venuto quassù qualche, giorno prima di te, per riparare il nido, mettere a posto una cosa o un’altra, ho sorvolato una notte intera, come se fossi una civetta o un pipistrello, senza tregua la distesa dell’acqua, ma non è servito a niente! Non sono infatti nemmeno servite le due spoglie di cigno che i piccoli e io portammo quassù dal paese del Nilo; fu abbastanza complicato, le portammo in tre viaggi. Ora sono molti anni che stanno sul fondo del nido e se un giorno dovesse andare a fuoco, se dovesse succedere che la casa fatta di travi andasse a fuoco, allora spariranno!» «E il nostro bel nido sparirà!» disse mamma cicogna, «ci pensi di meno che non a quelle vesti di piuma e alla tua principessa della palude! Un giorno dovresti andar giù a trovarla e rimanere giù nel fango! Sei un cattivo padre per la tua famiglia, l’ho detto fin dalla prima volta che covai le uova. Speriamo che la pazza ragazzaccia vichinga non tiri una freccia nell’ala a noi o ai nostri figli! Infatti ella non sa quello che fa. Noi siamo, bisogna dirlo, di casa qui da un po’ più tempo di lei, ella ci dovrebbe pensare; noi non dimentichiamo mai i nostri doveri, paghiamo i nostri tributi annui, una piuma, un uovo e un piccolo, come è giusto che sia. Credi che quando lei è fuori a me va di scenderci come nei vecchi tempi e come faccio in Egitto dove sono mezza compagna loro senza oltrepassare i limiti, guardo nelle vasche e nelle pentole? No, sto quassù a prendermela con lei – ragazzaccia! – e me la prendo anche con te! Avresti dovuto lasciarla nella ninfea, così non sarebbe stata qui!» «Sei molto più degna di rispetto che non il tuo discorso!» disse papà cicogna, «io ti conosco meglio di quanto tu stessa non ti conosca!» E poi egli fece un salto, due colpi pesanti con le ali, stese le gambe indietro e se ne volò via, planando senza muovere le ali. Si era allontanato da un pezzo quando diede un battito forte; il sole brillava sulle piume bianche, il collo e la testa erano tesi in avanti. Era tutto velocità e movimento. «Rimane però il più bello di tutti quanti!» disse mamma cicogna, «ma non glielo dico.»
Il giovane sacerdote
Il vichingo tornò presto nell’autunno di quell’anno con tutto il suo bottino e i suoi prigionieri; tra questi vi era un giovane sacerdote cristiano, uno di quegli uomini che perseguitavano gli idoli dei paesi nordici. Negli ultimi tempi si era spesso parlato nella sala e nella camera delle donne della nuova confessione che si espandeva dappertutto nei paesi più a Sud, che era perfino arrivata anche su fino alla città di Hedeby vicino al fiordo di Slien grazie a sant’ Anscario; perfino la piccola Helga aveva sentito parlare della fede nel Cristo bianco che per amore degli uomini aveva dato se stesso per salvarli. Per lei, come si suol dire, era entrato da un orecchio e uscito dall’altro; della parola Amore, lei sembrava avere soltanto una percezione quando si rannicchiava sotto la misera forma di rana nella sua stanza chiusa; ma la moglie del vichingo aveva ascoltato bene e si era sentita meravigliosamente commossa da quelle leggende e da quelle saghe che giravano sul figlio di un unico vero Dio. Gli uomini tornati dalla spedizione avevano raccontato di quei templi magnifici tagliati in pietre costose, costruiti per colui il cui messaggio era l’amore; due vasi dorati pesanti, scolpiti con arte e tutti in oro puro erano stati portati a casa. Vi era in ciascuno di essi un profumo aromatico particolare, erano gli incensieri che i sacerdoti cristiani facevano oscillare davanti all’altare dove non vi scorreva mai sangue, ma dove il vino e il pane consacrati venivano trasformati nel sangue di colui che aveva dato se stesso per le generazioni ancora a venire. Il giovane sacerdote cristiano catturato era stato messo nella profonda cantina in pietra della casa fatta di travi, con le mani e i piedi legati da fili di rafia; era bello; «vederlo sembrava il dio Baldurl» disse la moglie del vichingo ed ella rimase commossa dalle sue tribolazioni. Ma la giovane Helga desiderò che si facesse passare una corda attraverso le sue ginocchia e che fosse legato alla coda dei buoi selvatici. «Poi scioglierei i cani; Uh! Via attraverso le paludi e gli stagni, verso la brughiera! Sarebbe divertente vedere, ancora più divertente sarebbe poterlo seguire nel viaggio!» Il vichingo però non volle che egli morisse di tale morte, ma in quanto negatore e persecutore degli eccelsi dei, volle che fosse immolato subito l’indomani sulla pietra del sacrificio nel boschetto. Era la prima volta che una persona umana vi veniva immolata. La giovane Helga chiese di poter cospargere gli idoli e il popolo con il suo sangue. Ella affilò il suo coltello lucido e quando uno dei grandi cani mordaci, di cui ce n’erano tanti nella casa, le corse sopra i piedi, ella gli infilò il coltello nel fianco: «È per provarlo!» ella disse, e la moglie del vichingo guardò afflitta la ragazza selvatica e cattiva; e quando venne la notte e la figura della bellezza della figlia cambiò nel corpo e nell’anima, ella le parlò con le calde parole del dolore che provenivano da un’anima afflitta. Il brutto batrace dal corpo di orco le stette davanti e fissò i tristi occhi marroni su di lei, e ascoltando sembrava capire col pensiero umano. «Mai, nemmeno a mio marito, ho detto quello che patisco doppiamente con te!» disse la moglie del vichingo, «vi è più desolazione nel mio cuore per causa tua di quanto non credessi io stessa! Grande è l’amore di una madre, ma mai l’amore è passato per il tuo animo! Il tuo cuore è come una zolla di fango fredda! Ma da dove sei venuta in casa mia!» La figura pietosa tremolò allora in modo singolare, fu come se quelle parole toccassero un filo invisibile tra il corpo e l’anima, le vennero delle grosse lacrime agli occhi. «Un giorno verranno i tempi duri per te!» disse la moglie del vichingo, «saranno orribili anche per me! Sarebbe stato meglio se tu da bambina fossi stata depositata sulla pubblica via e il gelo della notte ti avesse cullata fino a portarti alla morte!» E la moglie del vichingo pianse a calde lacrime e se ne andò corrucciata e afflitta dietro alla tenda di pelle che stava appesa sopra la trave e che divideva la stanza. Il batrace stava tutto solo accovacciato nell’angolo; non c’erano rumori, ma a brevi intervalli salì dentro di lei un sospiro mezzo soffocato; fu come se nel dolore nascesse una vita nel più profondo del cuore. Ella fece un passo in avanti, ascoltò, fece ancora un passo e prese ora con le mani goffe la pesante stanga che era stata messa sulla porta; piano piano ella riuscì a toglierla, in silenzio tirò via la stecca che era stata messa sul saliscendi, afferrò la lampada accesa che stava nella cameretta davanti, e fu come se una forte volontà le desse la forza di tirare fuori la stecca di ferro dalla ribalta chiusa, per scendere giù dal prigioniero alla chetichella. Egli dormiva; ella lo toccò con la sua mano fredda e umida e quando egli si svegliò e vide la figura orrenda, rabbrividì come davanti a una visione malvagia. Ella tirò fuori il suo coltello, tagliò il suo legaccio e gli fece segno di seguirla. Egli fece il nome di alcuni santi, fece il segno della croce e siccome la figura rimaneva immutata, egli pronunciò le parole della Bibbia: «Beato l’uomo che ha cura del debole; nel giorno della sventura il Signore lo libera! Chi sei tu? Da dove questo aspetto esterno dell’animale, eppure pieno delle opere della misericordia?». La figura del batrace gli fece un cenno e lo condusse dietro alle tende che li nascondevano, per un corridoio deserto, fuori nella stalla; lì indicò col dito un cavallo, ed egli saltò su di esso, ma anche ella vi si mise davanti tenendo la criniera dell’animale. Il prigioniero la capì e a un trotto rapido presero una strada che egli non avrebbe mai trovata e che portava alla distesa della brughiera. Egli dimenticò la sua figura orrenda, sentì che la grazia e la misericordia del Signore agivano attraverso il mostro; egli disse delle preghiere devote e cantò degli inni sacri. Ella allora tremolò: era la forza della preghiera e del canto che agiva, o era il brivido per il freddo della mattina che stava incominciando? Che cosa era di preciso quello che ella sentì? Si sollevò molto in aria volendo fermare il cavallo per saltare giù; ma il sacerdote cristiano la tenne ferma con tutta la sua forza, cantando un salmo, come se questo fosse capace di sciogliere l’incantesimo che la teneva in quella orrenda forma di rana e il cavallo avanzò ancora più selvaggio, il cielo si fece rosso, il primo raggio di sole passò attraverso la nuvola e con la limpida fonte di luce arrivò la trasformazione: ella divenne la giovane bellezza con l’anima demoniaca e malvagia. Egli ebbe una giovane ragazza bellissima tra le sue braccia e ne fu spaventato, saltò giù da cavallo, fermandolo, pensando di andare incontro a un nuovo incantesimo devastante; ma anche la giovane Helga fu giù per terra con lo stesso salto, il suo vestito corto da bambina le arrivava soltanto fino alle ginocchia; tirò fuori dalla sua cintura il coltello affilato e si precipitò sulla persona sorpresa.
Via il maleficio?
«Lascia che ti raggiunga!» ella gridò, «lascia che ti raggiunga e il coltello entrerà tutto dentro di te! Sei proprio pallido come il fieno, schiavo! Senza barba!» Ella gli andò addosso; si scontrarono in una dura lotta, ma fu come se una forza invisibile desse energia all’uomo cristiano. Egli la tenne ferma e la vecchia quercia lì vicino gli venne in aiuto, legando in un certo modo con le sue radici mezzo staccate dalla terra i piedi di lei che si erano infilati sotto di esse. Lì vicino zampillava una sorgente, ed egli gettò la fresca fonte sul petto e sul viso di lei, ordinando allo spirito impuro di uscire e la benedì secondo le usanze cristiane, ma l’acqua del battesimo non ha forza laddove la fonte della fede non scorra anche da dentro. Eppure ancora egli fu il più forte; sì, vi fu nella sua azione qualcosa di più che l’energia dell’uomo contro la maligna forza militante, perché ella ne fu come incantata, fece cadere le braccia fissando con sguardi meravigliati e guance che impallidivano quest’uomo che sembrò un potente mago, forte nella magia nera e nell’arte segreta. Egli lesse rune oscure, rune magiche che disegnò nell’aria. Ella non avrebbe battuto ciglio per l’ascia lucida o il coltello affilato se egli li avesse agitati davanti ai suoi occhi, ma ella lo fece quando egli tracciò il segno della croce sulla sua fronte e sul suo petto; ed eccola che ora stette seduta come un uccello addomesticato, con la testa reclinata sul petto. Egli le parlò allora soavemente dell’atto d’amore che ella aveva fatto verso di lui quella notte, quando era venuta sotto le orrende spoglie della rana, e aveva sciolto il suo nastro per poterlo condurre fuori alla luce e alla vita. Anche lei era legata con vincoli più stretti che non quelli di lui, egli disse, ma anche ella doveva raggiungere, tramite lui, la luce e la vita. Egli voleva portarla alla città di Hedeby, da sant’Anscario; lì nella città cristiana si sarebbe sciolto l’incantesimo. Ma egli non osò portarla seduta davanti sul cavallo sebbene spontaneamente ella si mise lì. «Devi stare dietro sul cavallo, non davanti a me! La tua magica bellezza ha una forza che viene dal male, io la temo. La mia vittoria è in Cristo!» Egli si mise in ginocchio, pregò con tanta devozione e tanto fervore. Fu come se per questo la natura silenziosa della foresta fosse consacrata e trasformata in una santa chiesa; gli uccelli si misero a cantare come se facessero parte della nuova comunità dei fedeli, la menta crespa selvatica emanò un profumo come se volesse sostituire l’ambra grigia e l’incenso. Egli proclamò ad alta voce le parole della Scrittura: «Dall’alto una luce ci ha visitato per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace!». Ed egli parlò dell’attesa di tutta la natura e mentre parlava il cavallo che li aveva portati in una folle corsa, ora stava tranquillo scuotendo i rovi di mora in modo da far cadere le bacche mature e succose nella mano della piccola Helga, le quali si offrivano da sole come ristoro. Ella si fece sollevare pazientemente sulla schiena del cavallo, stava seduta lì come una sonnambula che non è sveglia e tuttavia non cammina. L’uomo cristiano legò insieme due rami con un filo di rafia per formare una croce, e la tenne sollevata in mano, e così attraversarono a cavallo la foresta, la quale si faceva sempre più fitta; la strada si faceva più profonda oppure non esisteva più. Il prugnolo faceva da barriera sulla strada, quindi bisognava aggirarlo. Vi era forza e ristoro nell’aria fresca della foresta, e una forza non inferiore nelle parole di clemenza che echeggiavano piene di fede e di amore cristiano nel profondo desiderio di portare l’essere sopraffatto alla luce e alla vita. Si dice infatti che la goccia di pioggia scava la dura pietra, le onde del mare arrotondano col tempo i sassi spigolosi strappati alla roccia; la rugiada della Grazia, che era arrivata per la piccola Helga, scavò la parte dura, arrotondò la parte tagliente. È vero che non si notava, ella stessa non lo sapeva, che cosa sa il germoglio sotto terra del fatto che attraverso l’umidità che ristora e il raggio caldo del sole esso nasconde in sé il proprio sviluppo e il suo fiore. Come la canzone della mamma al bambino si fissa insensibilmente nella mente ed egli balbetta le singole parole imitandole senza capirle, ma queste poi più tardi si compongono nel pensiero facendosi chiare col tempo, così agì anche qui il Verbo, parola capace di creare. Uscirono a cavallo dalla foresta, attraversarono la brughiera e di nuovo foreste prive di strade, finché verso sera incontrarono i briganti.
Nella foresta
«Dove hai rubato quella bella ragazzetta!» gridarono fermando il cavallo e tirando giù i due cavalieri, poiché erano numerosi. Il sacerdote non aveva altra difesa se non il coltello che aveva tolto alla piccola Helga, con esso egli ferì chi capitava intorno a lui. Uno dei briganti brandì la sua ascia, ma il giovane cristiano fece un salto fortunato da una parte, altrimenti sarebbe stato colpito. Ora il taglio dell’ascia si infilò a tutta velocità nel collo del cavallo facendone uscire il sangue a fiotti e l’animale crollò a terra; allora la piccola Helga si precipitò, come risvegliata dal suo lungo e profondo sonno del pensiero e si gettò sull’animale anelante. Il sacerdote cristiano si mise davanti a lei come protezione e difesa, ma uno dei briganti colpì la sua fronte col suo pesante martello di ferro, sicché questa si schiacciò e il sangue e il cervello schizzarono tutt’attorno, ed egli cadde morto per terra. I briganti acchiapparono la piccola Helga per il suo braccio bianco, mentre l’ultimo raggio di sole si spense ed ella si trasformò in un orrendo batrace; la bocca verde chiaro coprì metà del viso, le braccia si fecero esili e viscide, una mano larga con la membrana tra le dita aprì il suo ventaglio. Allora i briganti la lasciarono terrificati; ella stette lì come quel mostro orrendo in mezzo a loro e secondo la natura della rana ella saltò in aria, più su di quanto era grande lei e sparì nel folto del bosco; allora i briganti intuirono che fosse la cattiva malizia di Loki, oppure segreta magia nera e spaventati fuggirono via. La luna piena era già alta nel cielo, presto avrebbe emanato fulgore e luce. Dai rovi venne fuori a quattro zampe, sotto le orrende spoglie della rana, la piccola Helga, e si fermò davanti al cadavere del sacerdote cristiano e al suo corsiero ucciso; li guardò con occhi che sembravano piangere. La testa di rana fece un gra gra come se un bambino scoppiasse in lacrime. Ella si gettò a turno sull’uno e sull’altro, prese dell’acqua in mano la quale con la membrana era più grande e più cava e la spruzzò su di loro. Morti erano, morti sarebbero rimasti! Ella lo capì. Presto gli animali selvatici sarebbero venuti a mangiare il loro corpo; no, non doveva succedere! Scavò allora nella terra più in profondità che poté; voleva fare loro una tomba, ma per scavare ella aveva soltanto un duro ramo dell’albero e le sue due mani, ma su di esse la membrana tirava, essa si spezzò, il sangue corse. Ella si rese conto che il lavoro non le sarebbe riuscito; prese allora dell’acqua e lavò il viso del morto, lo coprì con fresche foglie verdi, portò grandi rami per coprirlo, sparse le foglie facendole cadere tra i rami, prese poi le pietre più pesanti che riuscì a portare e le pose sui corpi morti e tappò i buchi col muschio. Pensò allora che il tumulo fosse robusto e protetto, ma durante questo pesante lavoro la notte era avanzata, e il sole era spuntato: la piccola Helga riapparve nella sua bellezza, con le mani che le sanguinavano e per la prima volta con lacrime sulle guance verginali che arrossirono. Fu allora nella trasformazione come se le due nature lottassero dentro di lei; ella tremolò, si guardò attorno come se si svegliasse da un sogno angoscioso, si precipitò verso il faggio slanciato, si aggrappò a esso per avere almeno un sostegno, e presto, in un attimo si arrampicò, come un gatto, su fino alla cima dell’albero e stette ferma. Rimase lì come uno scoiattolo angosciato, vi rimase per tutta la giornata nella profonda solitudine del bosco, dove tutto è silenzioso e morto. Morto, sì, vi erano un paio di farfalle che si aggiravano intorno per giocare o per lottare; vi erano lì vicino alcuni formicai, ciascuno con diverse centinaia di piccole creature indaffarate che correvano in avanti e indietro; nell’aria ballavano innumerevoli zanzare, sciame dopo sciame. Passarono a coro schiere di mosche che ronzavano, coccinelle, libellule e altri piccoli animali alati, il lombrico veniva fuori carponi dal terreno umido, le talpe vi spuntarono fuori, però tutto era silenzioso attorno, tutto morto, morto come si dice e si intende comunemente. Nessuno notò la piccola Helga tranne le ghiandaie che volarono intorno alla cima dell’albero gridando, la cima dove ella stava seduta; esse saltarono sui rami avvicinandosi a lei con audace curiosità.
La figlia del fango
Quando la sera si avvicinò e il sole incominciava a tramontare, la trasformazione la chiamò a nuovi movimenti; ella si lasciò scivolare giù dall’albero e nello spegnersi dell’ultimo raggio di sole, stette lì nelle spoglie ristrette della rana, con le membrane delle mani lacerate, ma ora gli occhi brillarono con un bellissimo splendore che quasi non avevano prima sotto le sembianze della bellezza. Erano degli occhi di ragazza soavissimi, devotissimi che brillavano da dietro la maschera di rana, testimoniando la profondità dell’animo, del cuore umano; e gli occhi della bellezza scoppiarono in pianto, piangendo le pesanti lacrime del sollievo del cuore. Vicino alla tomba eretta vi era ancora quella croce di rami, legati insieme con un nastro di rafia, l’ultima opera di colui che ora era morto e sepolto; la piccola Helga la prese, il pensiero venne da solo: ella la piantò tra le pietre sopra di lui e sopra il cavallo ucciso. Alla malinconia del ricordo comparvero le lacrime, e in quest’atmosfera segnata dal cuore ella tracciò lo stesso segno nella terra intorno alla tomba. La inquadrava con tanta grazia, e mentre con tutte e due le mani tracciava il segno della croce, la membrana tra le dita cadde come un guanto stracciato e quando si lavò nell’acqua della fonte guardando con stupore le sue mani fini e bianche, fece ancora il segno della croce nell’aria tra sé e il morto. Allora le sue labbra tremarono, la sua lingua si mosse e il nome che lei aveva sentito cantare e pronunciare più spesso durante la cavalcata attraverso la foresta divenne udibile dalla sua bocca, ella lo gridò: «Gesù Cristo!». Allora caddero le spoglie da batrace, e fu di nuovo la giovane bellezza. Essendo sfinita dalla stanchezza, la testa chinò, e dormì. Ma il sonno fu breve. Verso la mezzanotte ella fu svegliata: davanti a lei stava il cavallo morto, così brillante, così pieno di vita, che la luce trasparì dagli occhi e dal collo ferito; vicino a esso apparve il sacerdote cristiano ucciso. “Più bello di Baldur!” avrebbe detto la moglie del vichingo, eppure egli venne in mezzo a lingue di fuoco. Vi era una serietà nei grandi occhi soavi, una sentenza di giustizia, uno sguardo tanto penetrante che illuminava in una certa misura gli angoli nascosti del cuore presso colei che era messa alla prova. La piccola Helga ne tremò, e la sua memoria fu destata con una forza come nel giorno del Giudizio Universale. Tutto il bene che le era stato fatto, tutte le parole care che le erano state dette furono come vivificati. Ella capì che era stato l’amore a sostenerla nei giorni della prova, durante i quali la progenie dell’anima e del fango fermenta e mira al suo obiettivo. Riconobbe di aver soltanto seguito gli impulsi degli stati d’animo e di non aver fatto niente per se stessa; tutto le era stato dato, tutto era stato come guidato. Ella si inchinò allora, misera, umile, piena di vergogna davanti a colui che sarebbe stato capace di leggere ogni piega del cuore e in quell’istante sentì come un lampo della fiamma purificatrice: la fiamma dello Spirito Santo. «Tu, figlia del fango!» disse il sacerdote cristiano, «Dalla melma, dalla terra sei stata tratta, dalla terra dovrai di nuovo risorgere! Il raggio di sole dentro di te torna, cosciente della sua corporeità, alla sua origine, non il raggio del disco del sole, ma il raggio di Dio! Nessuna anima va verso la perdizione, ma lungo è il tempo terrestre, che è la fuga della vita nell’eterno. Io vengo dalla terra dei morti; anche tu dovrai un giorno viaggiare per le profonde valli per entrare nelle montagne della luce dove abitano la grazia e la compiutezza. Non ti porto alla città di Hedeby per il battesimo cristiano, perché prima devi sfondare lo scudo di acqua sopra il fondo abissale della palude, svellere la radice viva della tua vita e della tua culla, compiere la tua opera prima che avvenga la consacrazione». Ed egli la sollevò sul cavallo, le diede un incensiere d’oro come quello che ella aveva visto prima nella fortezza dei vichinghi; da esso uscì un profumo tanto soave e tanto forte. La ferita aperta sulla fronte del morto luceva come un diadema brillante; egli prese la croce dalla tomba, la sollevò in aria e ora volavano a grande velocità nel cielo, sopra la foresta che fischiava, sopra i tumuli dove i guerrieri erano sepolti, seduti sui loro destrieri uccisi. E le figure immense si alzarono, uscirono a cavallo e si fermarono in cima al tumulo; al chiaro di luna brillava intorno alla loro fronte il largo anello d’oro con il nodo d’oro, il mantello sventolava al vento. Il serpente del Midgard, che custodiva i tesori, sollevò la testa e li seguì con lo sguardo. Il popolo dei nani guardava fuori dai tumuli e dai solchi dell’aratro, formicolava con luci rosse, blu e verdi, un formicolare che sembrava come le scintille nelle ceneri della carta bruciata. Sorvolarono foreste e brughiere, ruscelli e stagni, salendo verso la Palude Selvatica; sopra di esso si librarono in grandi cerchi. Il sacerdote cristiano sollevò molto in alto la croce, questa brillava come l’oro, e dalle sue labbra si sentì il canto della messa. La piccola Helga cantava con lui come un bambino canta insieme alla mamma; faceva oscillare l’incensiere, arrivò un profumo di altare tanto forte, tanto miracoloso che i giunchi e le canne della palude ne fiorirono. Tutti i germogli spuntarono fuori dalle profondità abissali, tutto quello che aveva vita si sollevò, si spanse un velo di ninfee come se fosse un tappeto intessuto di fiori e su di esso dormiva una donna giovane e bella. La piccola Helga credette di vedere se stessa, la sua immagine rispecchiata nell’acqua tranquilla; era in vero la sua mamma la donna che ella vide: la moglie del Re della Palude, la principessa delle terre del Nilo. Il sacerdote cristiano morto ordinò che la donna che dormiva venisse sollevata e messa sul cavallo, ma questo affondò sotto il suo peso come se il corpo dell’animale fosse soltanto un lenzuolo mortuario che vola al vento, ma il segno della croce diede forza al fantasma dell’aria e tutti e tre cavalcarono fino alla terra ferma. Allora il gallo cantò nella fortezza del vichingo e le visioni si sciolsero in nebbia, la quale fu portata dal vento, ma l’una di fronte all’altra rimasero mamma e figlia.
Ritrovarsi
«È me stessa che vedo nell’acqua profonda!» disse la mamma. «È me stessa che vedo nello scudo lucido!» esclamò la figlia e si avvicinarono l’una all’altra, petto contro petto, braccia contro braccia. Il cuore della madre batté più forte ed ella capì. «Mia figlia! Il fiore del mio proprio cuore! Il mio loto delle acque profonde!» Ed ella abbracciò la sua bambina e pianse; le lacrime furono un nuovo battesimo di vita e di amore per la piccola Helga. «Sono venuta qui sotto la spoglia di cigno che poi buttai via!» disse la madre, «sprofondai attraverso la palude che oscillava, giù in profondità nel fango della palude, che si chiuse come un muro intorno a me; ma ben presto sentii una corrente più fresca, una forza mi tirò più giù, sempre più giù, sentii la pressione del sonno sulle mie palpebre, mi addormentai, sognai. Mi sembrò di stare di nuovo nella piramide d’Egitto, ma davanti a me vi era ancora il ceppo di ontano che dondolava, il quale mi aveva spaventata sulla superficie della palude, osservai le fessure nella corteccia, ed esse davano una luce di diversi colori e diventarono geroglifici. Era l’involucro della mummia che io guardavo, esso si ruppe e da lì uscì il re vecchio migliaia di anni, la figura della mummia, nera come la pece, nera e lucida come la lumaca del bosco oppure come il fango grasso e nero, il Re della Palude o la mummia della piramide, non lo capii. Egli mi strinse tra le sue braccia e fu come se dovessi morire. Mi sentii di nuovo viva quando avvertii sul mio petto un calore e un piccolo uccello vi batté le ali, cinguettando e cantando. Esso volò via dal mio petto su in alto verso il soffitto buio e pesante, ma legò ancora su di me un lungo nastro verde; sentii e capii le note della sua nostalgia: “Libertà! Sole! Dal Padre!”. Allora pensai a mio padre nelle terre nostrane illuminate dal sole, alla mia vita, al mio amore, e sciolsi il nastro, lasciandolo volare via, verso il padre. Da quell’ora non ho sognato, dormivo di un sonno certamente tanto pesante e tanto lungo, fino a ora che le note e il profumo mi hanno sollevata e sciolta!»
Saluti d’addio
Il nastro verde del cuore della madre all’ala dell’uccello, dove svolazzava ora, dove era stato buttato? Soltanto la cicogna l’aveva visto; il nastro era il gambo verde, il fiocco il fiore lucido, e la culla per la bambina che ora era cresciuta in bellezza e che riposava di nuovo vicino al cuore della madre. E mentre stavano lì abbracciate papà cicogna girava intorno a loro, poi volò a tutta velocità al nido, vi prese le spoglie di piuma nascostevi per anni, ne buttò una a ciascuna di loro e questa si avvolse intorno a loro ed esse si sollevarono da terra come due cigni bianchi. «Parliamo adesso insieme!» disse papà cicogna, «ora capiamo uno la lingua dell’altro, sebbene il becco abbia un taglio diverso da un uccello all’altro! Capita proprio a proposito che siate venute questa notte, domani saremmo partiti, la mamma, io e i piccoli! voliamo verso Sud! Sì, guardatemi bene! Io sono infatti un vecchio amico del paese del Nilo, e lo è anche la mamma, ce l’ha più nel cuore che non nelle parole. Lei ha sempre pensato che la principessa si sarebbe salvata; io e i piccoli abbiamo portato qui su le spoglie di cigno. Ebbene, come sono felice! E che fortuna che io sia ancora qui! Quando spunta il giorno migriamo via. Voliamo davanti, volate dietro a noi, così non sbagliate strada; io e i piccoli vi terremo d’occhio!» «E il fior di loto che io dovevo portare,» disse la principessa egiziana, « volerà sotto la spoglia di cigno accanto a me! Ho portato con me il fiore del mio cuore, così si è risolta la questione. A casa, a casa!» Ma Helga disse di non poter lasciare la terra danese prima di aver visto ancora una volta la sua madre adottiva, la cara moglie del vichingo. Nella sua mente riaffiorarono tutti i bei ricordi, tutte le care parole, tutte le lacrime che la madre adottiva aveva pianto per lei, ed era in quell’istante quasi come se ella l’amasse di più della sua vera madre. «Sì, dobbiamo andare alla casa del vichingo!» disse papà cicogna, «lì aspettano infatti la mamma e i piccoli chiacchieroni! La mamma, però, non dice molto, è sbrigativa ed energica, e poi quello che pensa è ancora meglio! Voglio subito fare una gracchiata per avvisare che arriviamo!» E poi papà cicogna gracchiò col becco ed egli e i cigni volarono fino alla fortezza dei vichinghi. Lì tutti dormivano ancora di un sonno profondo; soltanto la sera tardi la moglie del vichingo era riuscita a riposare; era angosciata per la piccola Helga che ora da tre giorni e tre notti era sparita col sacerdote cristiano. Doveva averlo aiutato ad andare via, infatti era il cavallo di lei che mancava nella stalla, ma si domandava quale era la forza che aveva provocato tutto questo. Pensava a tutti i miracoli di cui si sentiva parlare a proposito del Cristo bianco e di coloro che credevano in Lui e Lo seguivano. I pensieri che si alternavano presero forma nella vita del sogno. Le sembrò di stare ancora sveglia riflettendo nel letto e fuori regnava il buio. Venne la tempesta, ella sentì il rullio del mare a Ovest e a Est proveniente dalle acque del Mare del Nord e del Kattegat; l’immenso serpente che faceva il giro della terra nella profondità del mare tremava in spasimi. Si avvicinava il crepuscolo degli Dei, il Ragnarok, come i pagani chiamavano l’ora estrema quando tutto sarebbe perito, perfino gli eccelsi Dei. Il coro dei galli risuonò e gli Dei cavalcarono sopra l’arcobaleno, vestiti di acciaio per combattere l’ultima lotta; davanti a loro volarono le valchirie alate e la fila si chiuse con le figure dei guerrieri morti; tutta l’aria intorno a loro brillò con lampi di luce dell’aurora boreale, ma fu l’oscurità a vincere. Il momento fu orrendo. E vicino all’angosciata moglie del vichingo la piccola Helga stava seduta per terra nella forma orrenda della rana, anche ella tremò e si strinse alla madre adottiva che la prese nel suo grembo e la tenne stretta con amore, per quanto potessero sembrare orrende le spoglie del batrace. Nell’aria si sentirono colpi di spada e di mazza, di frecce che tagliavano l’aria come se fosse una grandinata tempestosa che passasse sopra di loro. Era arrivata l’ora in cui il cielo e la terra si sarebbero frantumati, in cui le stelle sarebbero cadute, in cui tutto sarebbe perito nel fuoco del gigante Surtur; ma ella sapeva che una nuova terra e un nuovo cielo sarebbero rinati, il grano avrebbe ondeggiato laddove ora il mare ragliava sopra il fondo sabbioso arido, il Dio innominabile avrebbe regnato e a Lui salì Baldur, il dolce, l’affettuoso, liberato dal Regno dei Morti. Egli venne. La moglie del vichingo lo vide, e riconobbe il suo viso: era il sacerdote cristiano catturato. «Cristo bianco!», gridò ad alta voce, e nel fare il nome, ella strinse a sé e baciò la fronte della sua orrenda figlia rana. Ed ecco che le spoglie da batrace caddero e la piccola Helga stette lì in tutta la sua bellezza, dolce come non lo era mai stata prima e con gli occhi che brillavano; ella baciò le mani della madre adottiva, la benedì per tutte le cure, tutto l’amore che lei le aveva accordato nei giorni della tribolazione e della prova; la ringraziò per i pensieri che ella aveva depositato in lei e che aveva risvegliato, la ringraziò per aver fatto il nome che ella ripeté: «Cristo bianco!». E si sollevò come un enorme cigno, le ali si stesero grandissime con un sussurro come quando la schiera degli uccelli migratori vola via.
Di nuovo verso l’Egitto
La moglie del vichingo si svegliò, mentre fuori si sentiva ancora lo stesso forte colpo di ala. Sapeva che era il periodo in cui le cicogne se ne andavano da lì, e volle vederle ancora una volta prima della loro partenza per dir loro addio. Si alzò, uscì sul balcone ed ecco che vide sulla cima del tetto della casa di fianco una cicogna accanto all’altra e intorno al cortile, e sopra i grandi alberi grandi schiere volavano formando grandi giri; ma proprio di fronte a lei, sul bordo del pozzo, dove la piccola Helga era stata seduta tanto spesso a spaventarla con la sua selvatichezza, stavano ora due cigni e la guardavano con occhi intelligenti, ed ella si ricordò del suo sogno, che la colmava ancora completamente, esattamente come la realtà. Pensò allora alla sua piccola Helga sotto la spoglia di cigno, pensò al sacerdote cristiano e si sentì all’improvviso meravigliosamente felice nel cuore. I cigni batterono le ali, piegarono i loro colli come se anche essi volessero darle il loro saluto; e la moglie del vichingo stese le braccia verso di loro come se ella capisse. Sorrise nel pianto e nei suoi tanti pensieri. Allora tutte le cicogne si sollevarono con fragore di ali e gridolii per il viaggio verso Sud. «Non aspettiamo i cigni!» disse mamma cicogna, «se vogliono venire con noi, che vengano! Non possiamo stare qui fino alla partenza dei pivieri. C’è però qualcosa di bello a viaggiare così, tutti in famiglia: non come i fringuelli e i combattenti dove i maschi e le femmine volano per conto loro, e a dire il vero non è neanche decoroso! E come volano i cigni?» «Ognuno vola a modo suo.» disse papà cicogna, «i cigni di traverso, le gru a triangolo e i pivieri in linea serpeggiante.» «Non nominare il serpente quando voliamo quassù!» disse mamma cicogna, «fa soltanto venire ai piccoli delle voglie che non si potrebbero soddisfare!» «Quelle laggiù sono le grandi montagne di cui sentii parlare?» chiese Helga sotto la spoglia di cigno. «Sono nuvole da temporale che passano sotto di noi!» disse la madre. «Che cosa sono quelle bianche nuvole che si innalzano così in alto?» chiese Helga. «Sono le montagne eternamente coperte di neve quelle che vedi!» disse la madre, e sorvolarono le Alpi, in direzione del Mar Mediterraneo azzurreggiante. «La terra d’Africa! La spiaggia dell’Egitto!» esultò la figlia del Nilo sotto la spoglia di cigno, vedendo da su in aria una specie di striscia giallo biancastra in forma di onda, il suo paese d’origine. Anche gli uccelli la videro e accelerarono il loro volo. «Sento il profumo del fango del Nilo e delle rane bagnate!» disse mamma cicogna, «mi fa il solletico dentro! Sì, adesso assaggerete e vedrete Marabù, Ibis e Gru! Sono tutti della famiglia, ma non sono così belli come noi; si mostrano signorili, soprattutto l’Ibis. Certo è stato viziato dagli egiziani: fanno di lui una mummia, lo imbottiscono di erbe aromatiche. Io preferirei essere imbottita di rane vive, anche voi e lo sarete! Meglio qualcosa nello stomaco quando si è ancora vivi che essere di ornamento quando si è morti! Questo è il mio parere ed è sempre quello giusto!» «Adesso sono arrivate le cicogne!» dissero nella casa ricca sulle rive del Nilo, dove nella grande sala, su morbidi cuscini coperti da pelle di leopardo, il signore reale era sdraiato, né vivo, né morto, sperando nel fior di loto portato dalla profonda palude del Nord. Parenti e servi stavano intorno a lui. E nella sala entrarono a volo due splendidi cigni bianchi, che erano arrivati insieme alle cicogne. Gettarono via le accecanti spoglie di piuma ed ecco apparire due belle donne, simili come due gocce di rugiada; si chinarono sopra il pallido vecchio appassito, gettarono indietro i loro lunghi capelli e nel momento in cui la piccola Helga si chinò sul nonno, le sue guance arrossirono, i suoi occhi presero a brillare, la vita invase le membra irrigidite: il vecchio si alzò fresco e ringiovanito. La figlia e la nipotina lo tennero nelle loro braccia come per un saluto mattutino dopo un lungo sogno pesante. E ci fu gioia in tutta l’abitazione e anche nel nido delle cicogne, ma lì fu soprattutto per il buon cibo, il formicolio delle tante rane; e mentre gli eruditi frettolosamente annotarono senza ordine la storia delle due principesse e del fiore della salute, che fu un grande avvenimento e una grande benedizione per la casa e per il paese, i genitori cicogne la raccontarono a loro modo e alla loro famiglia, ma soltanto dopo che erano tutti sazi, sennò avrebbero avuto altre cose da fare che non ascoltare storie. «Adesso diventerai qualcuno!» sussurrò mamma cicogna. «Oh, che cosa potrei diventare!» disse papà cicogna, «e che cosa ho fatto? Niente!» «Tu hai fatto più di tutti gli altri! Senza di te e senza i piccoli le due principesse non avrebbero mai rivisto l’Egitto e non avrebbero mai curato il vecchio. Diventerai qualcuno! Ti daranno di sicuro il grado da dottore e i nostri piccoli nasceranno da allora in poi con questo, e i loro piccoli ancora in avanti! Già assomigli davvero a un dottore egiziano, ai miei occhi!» Gli eruditi e i saggi elaborarono l’Idea Fondamentale, come la chiamarono, che attraversò l’intero evento: «Dall’amore nasce la vita.», spiegandola in diversi modi: «Il raggio caldo del sole era la principessa egiziana; ella scese dal Re della Palude e dal loro incontro spuntò fuori il fiore.» «Non riesco bene a ripetere le parole!» disse papà cicogna che aveva ascoltato su dal tetto e che doveva farne il resoconto al nido. «Era così complicato quello che dicevano, era così intelligente che ricevettero immediatamente un grado e dei regali, perfino il capocuoco ebbe una grande onorificenza. Era probabilmente per la minestra!» «E tu che cosa ricevesti?» chiese mamma cicogna, «non avranno dimenticato, spero, il più importante e quello sei tu! Gli eruditi hanno soltanto parlato riguardo a tutto questo! ma il tuo turno verrà, spero!»
Finalmente felicità
Nella tarda notte, quando la pace del sonno riempiva la ricca casa felice, c’era ancora uno che vegliava, e questo non era papà cicogna, sebbene egli stesse montando la guardia dormendo su una sola gamba su nel nido. No, era la piccola Helga quella che vegliava sporgendosi dal balcone e guardava l’aria limpida con le grandi stelle lucenti, più grandi e più brillanti di quanto ella le aveva viste a Nord, eppure le stesse. Ella pensava alla moglie del vichingo vicino alla Palude Selvatica, ai soavi occhi della madre adottiva, alle lacrime che aveva pianto sulla misera bambina rana, che ora stava al chiarore e allo splendore delle stelle vicino alle acque del Nilo nella deliziosa aria primaverile. Pensò all’amore nel petto della donna pagana, quell’amore che aveva dimostrato a una misera creatura che sotto le spoglie di una persona umana era un animale malvagio e sotto le spoglie dell’animale era disgustosa da vedere e da toccare. Guardò le stelle lucenti e si ricordò il chiarore della fronte del morto quando volarono sopra le foreste e i pantani; nella sua memoria risuonavano note, parole che lei aveva sentito pronunciare quando avanzarono a cavallo ed ella era come sopraffatta dall’emozione; parole sul grande principio dell’Amore, l’Amore più eccelso, che abbracciava tutte le stirpi. Sì, quante cose non erano state date, vinte, ottenute! Il pensiero della piccola Helga abbracciava, di notte, di giorno, tutta l’intera sua felicità e la guardava come il bambino che si rigira velocemente da colui che dona ai doni, a tutti i bei regali; fu come se ella si unisse alla felicità crescente che avrebbe potuto venire, che sarebbe venuta. Ella infatti era stata portata attraverso miracoli a una gioia e a una felicità sempre più grandi e in queste si perse un giorno, completamente, tanto da non pensare più a colui che dona. Era l’ardire dello spirito della giovinezza, che fece il suo rapido colpo! I suoi occhi ne brillarono, ma ella ne fu immediatamente richiamata fuori da un forte rumore giù nel cortile sotto di lei. Laggiù vide due immensi struzzi che correvano velocemente in cerchi stretti; un animale che non aveva mai visto prima: un uccello tanto grande, tanto goffo e pesante, con le ali che sembravano tarpate, e che sembrava molestato, ed ella chiese cosa gli era successo; e per la prima volta ella sentì quella leggenda che gli egiziani raccontano a proposito dello struzzo. La sua stirpe era stata bella una volta, le sue ali grandi e robuste.
La leggenda dello struzzo
Una sera gli uccelli potenti della foresta gli dissero allora: «Fratello! domani vogliamo, se Dio lo vuole, volare fino al fiume per bere?». E lo struzzo rispose: «lo voglio!». Quando si fece giorno, volarono via, prima molto in alto verso l’occhio di Dio, il sole, sempre più in alto, e lo struzzo molto davanti a tutti gli altri, che volava orgoglioso verso la luce; aveva fiducia soltanto nelle proprie forze e non in Colui che dona. Non disse: «se Dio vuole!» quando l’angelo della punizione tirò via il velo da colui che irradiava fiamme, e in quello stesso istante le ali dell’uccello furono ustionate, ed esso sprofondò, misero, fin giù sulla terra. Così, insieme alla sua stirpe, non ha più avuto la forza di sollevarsi; esso fugge spaventato, si precipita in cerchi nello spazio stretto. La sua storia è diventata per noi uomini un monito per dire in tutti i nostri pensieri e in tutti i nostri atti: «se Dio vuole!». Ed Helga inclinò pensierosa la testa, guardò lo struzzo che correva, vide la sua angoscia, vide la sua stupida gioia alla vista della propria grande ombra sul muro bianco illuminato dal sole. E la gravità gettò le sue radici profonde nell’animo e nel pensiero. Una vita tanto ricca, nella felicità crescente, era stata data, era stata vinta… che cosa sarebbe successo, che cos’altro le avrebbe riservato il destino? La cosa migliore: «se Dio vuole!».
Ritorno dai vichinghi
Nella primavera precoce, quando le cicogne ripartirono per il Nord, la piccola Helga prese il suo braccialetto d’oro, vi incise il suo nome, fece cenno a papà cicogna, gli mise l’anello d’oro intorno al collo pregandolo di portarlo alla moglie del vichingo, che da esso avrebbe capito che la figlia adottiva era in vita, era felice e si ricordava di lei. “E pesante da portare!” pensò la cicogna quando gli venne messo intorno al collo, “ma non bisogna buttare l’oro e l’onore sulla pubblica via. Capiranno lassù che la cicogna porta fortuna!” «Tu depositi l’oro, e io deposito le uova!» disse mamma cicogna, «ma tu lo fai una volta sola, io lo faccio tutti gli anni! Eppure nessuno di noi ha diritto a un apprezzamento! È mortificante! » «Rimane la coscienza di averlo fatto, mamma!» disse papà cicogna. «Quella non te la puoi attaccare in modo vistoso!» disse mamma cicogna, «non porta né vantaggi, né pasti!» E poi se ne volarono via. Il piccolo usignolo cantava nel cespuglio di tamarindo, pensando anche lui di partire ben presto per il Nord. Lassù alla Palude Selvatica la piccola Helga l’aveva spesso sentito. Ella volle mandare con lui un messaggio, perché aveva imparato la lingua degli uccelli da quando aveva volato sotto la spoglia di cigno; l’aveva da allora spesso parlata con la cicogna e la rondine, quindi l’usignolo l’avrebbe capita, ed ella lo pregò di volare su fino alla foresta di faggi sulla penisola dello Iutland, dove era stata eretta la tomba con pietre e rami, e gli disse di pregare tutti gli uccellini di lassù di prendersi cura della tomba e di cantare un canto e ancora un canto. E l’usignolo se ne volò via, e anche il tempo se ne volò via! L’aquila stava sulla piramide e vide nell’autunno una fastosa spedizione con cammelli riccamente caricati, uomini lussuosamente vestiti e armati su cavalli arabi frementi, bianchi e brillanti come l’argento e con narici rosse che tremolavano; la criniera grande e fitta che cadeva sulle esili gambe. Ricchi ospiti, un principe reale dal paese d’Arabia, bello come un principe deve essere, fecero la loro entrata nella casa orgogliosa dove ora il nido delle cicogne era vuoto. Coloro che vi abitavano erano infatti in un paese del Nord, ma presto sarebbero tornati. E vennero proprio quel giorno quando si era al massimo della gioia e dell’allegria. Vi erano feste di nozze e la piccola Helga era la sposa, vestita di seta e gioielli; lo sposo era il giovane principe della terra d’Arabia. Stavano seduti a capotavola tra la madre e il nonno. Ma ella non guardava la guancia bruna e mascolina dello sposo, dove la barba nera si increspava, non guardava i suoi focosi occhi scuri che la fissavano: ella guardava fuori, in alto verso la stella che ammiccava e luccicava e dal cielo brillava verso la terra. Si sentì allora uno strepito di forti colpi d’ala fuori nell’aria: le cicogne tornavano a casa. E la vecchia coppia di cicogne, per quanto potesse essere stanca dopo il viaggio e per quanto avesse certamente bisogno di riposo, volò immediatamente giù sulla ringhiera della veranda, poiché sapevano quale festa fosse. Avevano già sentito alla frontiera del paese che la piccola Helga li aveva fatti dipingere sul muro, perché facevano parte della sua storia. «È molto ben pensato!» disse papà cicogna. «È molto poco!» disse mamma cicogna, «di meno, certo, non poteva essere fatto!» E quando Helga le vide, si alzò e andò nella veranda da loro per accarezzarle giù per la schiena. La vecchia coppia di cicogne fece la riverenza col collo e i più giovani dei piccoli li guardarono e si sentirono onorati. Ed Helga guardò in alto verso la stella che luceva, che brillava sempre più limpida; e tra essa e lei si muoveva una figura, più pura dell’aria e per questo visibile, che si librava proprio vicino a lei: era il sacerdote cristiano morto. Anche lui arrivò il giorno della sua grande festa, e veniva dal Regno dei Cieli. «Lì, lo splendore e la magnificenza sorpassano tutto ciò che la terra possa conoscere!» egli disse. E la piccola Helga pregò, con tanta dolcezza e tanto fervore come non aveva mai pregato prima, di potere, per un solo istante, guardare dentro, per poter dare una sola unica occhiata nel Regno dei Cieli, al Padre. Egli allora la sollevò nel chiarore e nella magnificenza, in un fiume di note e di pensieri. Non fu soltanto intorno a lei che vi furono la luce e la musica, ma anche dentro di lei. Non ci sono parole per esprimere tutto questo. «Ora dobbiamo tornare indietro, tu manchi loro!» egli disse.
«Ancora un’unica occhiata!» ella pregò; «soltanto un unico breve istante!» «Dobbiamo tornare sulla terra, tutti gli ospiti se ne vanno!» «Soltanto un’unica occhiata! L’ultima!»
Finale a sorpresa
E la piccola Helga stette di nuovo nella veranda, ma tutti i fuochi là fuori erano spenti, tutte le luci nella sala degli sposi erano sparite, le cicogne erano sparite, non si vedeva nessun ospite, nessuno sposo, tutto fu come portato via dal vento in tre brevi istanti. Allora Helga fu presa dall’angoscia: attraversò la grande sala vuota per entrare nella stanza seguente, dove vi dormivano soldati stranieri, aprì la porta laterale che dava sulla sua stanza, e pensando di stare lì, si trovò fuori nel giardino (prima infatti qui non era così). Il cielo brillava di rosso, era verso l’alba. Tre istanti soltanto nei cieli e una intera notte terrestre era passata! Allora ella vide le cicogne; fece loro un grido parlando la loro lingua e papà cicogna girò la testa, udì e si avvicinò. «Parli la nostra lingua!» egli disse, «che cosa vuoi? Perché vieni qui, tu, donna forestiera?» «Ma sono io! sono HeIga, non mi riconosci? Tre istanti fa parlavamo insieme, là nella veranda.» «C’è un equivoco!» disse la cicogna, «hai sognato tutto!» «No, no!» ella disse ricordandogli la fortezza dei vichinghi e la Palude Selvatica il viaggio per venire fin lì. Allora papà cicogna batté le ciglia: «Ma questa è una vecchia storia, l’ho sentita dai tempi della mia bis-bis-nonna! Sì, è vero che vi fu qui in Egitto una certa principessa dalla terra danese, ma ella sparì la sera delle sue nozze centinaia di anni fa e non tornò mai più! Lo puoi leggere tu stessa qui sul monumento nel giardino, vi sono scolpiti e cigni e cicogne e su in cima ci stai tu nel marmo bianco.» Così era. La piccola Helga vide questo, capì, e cadde in ginocchio. Mentre il sole si mise a brillare, così come era successo in quei giorni ormai lontani, quando le spoglie di rana caddero ai suoi raggi e apparve la bella figura umana, così ora si sollevò nel battesimo della luce una figura di bellezza più limpida, più pura dell’aria, un raggio di luce, verso il Padre. Il corpo sprofondò nella polvere: dove ella era, giacque un fiore di loto appassito.
«Ma questa è una nuova fine della storia!» disse papà cicogna, «questa non me la sarei davvero aspettata! Ma mi piacque assai!» «Chissà cosa ne direbbero i piccoli?» chiese mamma cicogna, «Eh sì, questa è certamente la cosa più importante!» disse papà cicogna.