C’era una volta… un Principe e una Principessa giovani e sposati da qualche anno; lui, buono, gentile, caritatevole; lei, bella, ma piena di capricci e talvolta superbiosa e crudele. Comandava, e voleva essere subito obbedita; esprimeva un desiderio e pretendeva che fosse immediatamente soddisfatto. Se qualcuno dei servitori, dei dipendenti, non intendeva bene i suoi ordini, o li eseguiva male, diventava una furia. Invano il marito tentava di rabbonirla: “Principessa!… Principessa!…” Si rivoltava contro di lui, gli rispondeva con parolacce che non stavano punto bene in bocca di una dama sua pari. Una volta si era incapricciata di una pianta del giardino che circondava il castello dove essi abitavano. L’annaffiava lei, la ripuliva lei; guai se il giardiniere si permetteva di levar via una foglia avvizzita e cascata per terra! Una pianta comune: ma la Principessa si era messa in testa che dovesse far fiori e frutti rari.
Una sera, scende in giardino e scorge tra i rami fili di paglia, con alcune piumine e il groviglio di un po’ di refe. Le parve un delitto. “Giardiniere, che significa questo?” “Qualche coppia di uccellini si prepara il nido, Principessa.” “Buttate via ogni cosa; non voglio nidi sulla mia pianta.” E il giardiniere, presi quei fili di paglia, quelle piumine, quel po’ di refe, ne fece un batuffolo e lo buttò via. Fra i rami di un’alta pianta vicina due uccellini svolazzavano e strillavano, quasi piangessero di veder dispersi quei primi materiali del loro nido. “Poverini!” esclamò sotto voce il giardiniere. E, il giorno dopo, vedendoli andare e venire affannosamente, portando coi becchi fili di paglia, piume, foglie secche, grovigli di refe, biòccoli di lana e cose simili, per ricostruire con ostinatezza il nido nel posto già scelto, il giardiniere li compiangeva: “Verrà la Principessa e vi disfarà ogni cosa! Mancano piante e rami, poverini!” Ma gli uccelletti non intendevano le parole del giardiniere, e andavano e venivano affannosamente; verso sera, il loro nido era già bell’e finito. Appena la Principessa lo scorse tra i rami, se la prese col giardiniere. “Che colpa ne ho io? Poverini, hanno fretta di depositarvi le uova.” “Ah sì? Domani ne farò una frittatina per il gattino.” Attese che la femmina avesse terminato di deporre le uov, e ordinò al giardiniere: “Portatemele in cucina e disfate quel nido!” Il giardiniere obbedì a malincuore: aveva le lacrime agli occhi sentendo gli strilli degli uccellini che parevano un pianto. La crudele Principessa ruppe di sua mano le ovette in un tegamino, vi aggiunse, cacio e pane grattato, e ne fece, come aveva detto, una frittatina per il gattino che le stava tanto a cuore. Il gattino esitava a mangiarla, miagolava, si ritirava indietro. Ma quando la Principessa si era ficcata in testa una cosa, non c’era verso di farla desistere. “Il gattino non ha fame” gli disse il Principe. “Fame o non fame, deve mangiare questa frittata; l’ho fatta apposta per lui.” Il gattino, preso per il collo, con il muso nel tegamino, dovette mangiare per forza. Ma aveva appena ingoiato l’ultimo boccone, che “Meo! Meo! Meo!” stirava le gambe e moriva, quasi avesse preso un veleno. La Principessa rimase scossa da quella disgrazia; il gattino era la sua bestiolina prediletta. E la notte dopo fece un brutto sogno. Si destò atterrita: “Ah, Principe, se sapeste che cosa ho sognato!” “Che cosa, Principessa?” “Tante piume, tante piume fioccavano giù dal cielo come falde di neve, e io mi trovavo appesa al collo una padellina di rame. Le piume mi toglievano il respiro: la padellina pesava, pesava… È un triste presagio, certamente.” “Si sognano tante sciocchezze, Principessa!” “No, Principe! Bisogna consultare coloro che spiegano i sogni.” “Li consulteremo.. Intanto non vi affliggete per così poco!”
Furono chiamati parecchi sapienti. Stettero a sentire, seri, con le sopracciglia corrugate, sfogliarono a lungo i libroni che avevano portati con loro. Chi diceva una cosa, chi un’altra, e ognuno affermava che la sua spiegazione era la vera. “Mettetevi d’accordo, signori miei!” Il Principe non poteva persuadersi che quelle piume fioccanti dal cielo e quella padellina di rame appesa al collo di sua moglie significassero tante opposte cose. “Mettetevi d’accordo, cari miei!” Invece di mettersi d’accordo, quei sapienti finivano col darsi vicendevolmente dell’asino, e con lo scaraventarsi addosso i loro grossi, volumi. La Principessa non si dava pace. “Bisogna consultare un gran Mago! La cosa è troppo intrigata, se nessuno di questi sapienti è riuscito a spiegarla.” “Si sognano tante sciocchezze, Principessa!” “No, Principe! Questa volta ho un grande sgomento nel cuore.” “Consulteremo il mago Barba-d’oro. Lo manderò a chiamare al castello.” E spedì persona fidata con ricchissimi doni. Il mago Barba-d’oro accettò i doni, ma quando sentì di che cosa si trattava, rispose sdegnato: “Non sono il servitore di nessuno.”
Sia signore, sia vassallo,
Né in carrozza, né a cavallo
Chi non viene coi suoi piedi,
Barba-d’oro non riceve.
Il messaggero tornò con questa risposta. Per arrivare all’abitazione del Mago bisognava camminare tre giorni e tre notti, attraverso luoghi incolti, infestati da bestie feroci, boscaglie, orridi sentieri. Il messaggero aveva temuto di non tornare vivo al castello. “Mi sembra un bel modo di dirci: Non venite; è proprio inutile.” “No, Principe; a qualunque costo!” Se la Principessa era testarda per cose da nulla, figuriamoci ora che viveva sotto lo strano terrore del suo sogno! Invano il Principe si sforzava di convincerla che i sogni non hanno né capo né coda. Le voleva bene, e vedendola ostinata a intraprendere il pericoloso viaggio, cominciò a sentirsi penetrare nell’animo lo stesso sgomento di sua moglie. Quel sogno doveva essere un cattivo presagio! E decisero d’andare a piedi dal mago Barba-d’oro. Si misero in viaggio all’alba e camminarono tutta la giornata. La Principessa era così impaziente di avere la spiegazione del suo sogno, che non si curava della fatica e dei disagi del cammino. “Riposiamoci un po’, Principessa!” “Più in là, Principe, più in là.” Forteti, boscaglie, orridi sentieri; e la notte, sotto il cielo stellato senza luna, urli di bestie feroci, vicini, lontani, che li atterrivano e non permettevano ch’essi chiudessero occhio. Un giorno e una notte; e poi daccapo, un altro giorno e un’altra notte. Per quegli orridi sentieri non s’incontrava anima viva. Il povero Principe non ne poteva più. “Riposiamoci un po’, Principessa!” “Più in là, Principe, più in là!” Finalmente, il terzo giorno, verso sera, ecco tra gli alberi la casa del Mago. Con la facciata annerita dal tempo, tutta coperta di macchie di umido e di muffa verdastra, coi vetri delle finestre appannati dalla, polvere e dalle ragnatele, quella casa ispirava ribrezzo. La Principessa, col fiato ai denti, con le gambe che le si piegavano, fece uno sforzo, giunse davanti alla porta e picchiò. Comparve il mago Barba-d’oro. “Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!” Il Principe e la Principessa allibirono. “Entrate, ristoratevi, e andate a letto. Domani, con comodo, riparleremo del sogno.” Il Principe e la Principessa allibirono. Quel Mago sapeva tutto!
Il giorno dopo il sole era già alto ed essi dormivano ancora. Se non la svegliava il Principe, la Principessa avrebbe dormito fino a tarda sera. Il Mago li attendeva nel suo laboratorio. “Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!” “Perché, mago Barba-d’oro?” “Non lo sapete che i nidi sono cosa sacra? Distruggere un nido è come appiccare il fuoco a una casa. Voi avete impedito di nascere a sei creature di Dio e per malvagità, non per altro. Ne sarete castigata. In che modo io non so dirvelo. Ve lo dirà la fata Cicogna.” “E dove si trova la fata Cicogna?” “Guardate da questa finestra: laggiù, laggiù, su quel tetto.” “Badate però di non chiamarla fata Cicogna, ma fata Splendore. Le piume e la padellina di rame del sogno significano il vostro castigo. Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!” “Grazie, mago Barba-d’oro!” E all’alba del giorno dopo partirono. Cammina, cammina, cammina, e al tetto della fata Cicogna, che dalla finestra era parso così vicino, non si arrivava mai. La Principessa non osava rifiatare, pensando che tutti quei disagi il Principe li soffriva per colpa sua. Ma forse essi erano niente, in confronto ai guai che li attendevano. Il mago Barba-d’oro aveva ripetuto più volte: “Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!” Giunsero alfine, stanchi morti. La fata Cicogna stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un’ala; dormiva. Attesero che si svegliasse. Abbassò l’altro piede, distese il collo, sbatté le ali e mandò fuori un rauco grido, che parve sbadiglio. “Fata Cicogna, fata Cicogna, ci manda il mago Barba-d’oro.” Nello sbalordimento, la Principessa aveva dimenticato di chiamarla fata Splendore.
“Ha fatto mala bisogna
Chi cerca fata Cicogna:
Fra le piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata
Frittata e non frittata.”
Aprì le ali, tese i piedi e la fata Cicogna volò via. “E ora come faremo? Bisognava dire fata Splendore!” “Torniamo dal Mago; ci consiglierà.” E rifecero la strada. “Ah, mago Barba-d’oro! Mi scappò detto fata Cicogna!” “Non vi perdete d’animo. Fate fare un gran nido d’oro e portateglielo; non c’è altro rimedio, Principessa.” “Faremo fare un gran nido d’oro” disse il Principe. “Ma che cosa significano le parole: È figlio e non è figlio? Frittata e non frittata?” “Ve lo deve dire soltanto fata Cicogna.” Tornarono al castello, che erano quasi irriconoscibili, e ordinarono subito un gran nido di cicogna tutto d’oro. Quando fu pronto, dopo un mese, Principe e Principessa si rimisero in cammino, ma questa volta a cavallo, e andarono direttamente da fata Cicogna. Stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un’ala: dormiva. Attesero che si svegliasse. “Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d’oro.” “Io mi chiamo Cicogna e non Splendore!” Principe e Principessa si guardarono in viso, contristati. “Accettate, vi preghiamo, questo povero nido.” Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco il nido d’oro e lo ripose sul tetto.
Ha fatto mala bisogna
Chi non cerca fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata.
Aprì le ali, tese i piedi e fata Cicogna volò via. Principe e Principessa non se l’aspettavano. La Principessa non aveva sbagliato. “Ho detto: fata Splendore: è vero?” “Sì, fata Splendore.” “O dunque?” “Torniamo dal Mago, ci consiglierà.” “Non vi perdete d’animo” disse il Mago. “Fate fare due uova d’argento grosse quanto le uova di cicogna e portategliele.” “Ma come bisogna dire: fata Cicogna o fata Splendore?” “Sempre fata Splendore.” E un mese dopo furono di ritorno con le due uova d’argento. “Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d’oro. Accettate queste due uova.” Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco prima uno poi l’altro uovo e li collocò nel nido d’oro e vi si accoccolò come per covarli.
“Ha fatto buona bisogna
Chi ha cercato fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata.”
Quando avrò covato quest’uovo, tornate e saprete. “Quanto ci vorrà?” “Il sole ora spunta da quel monte, dovrà spuntare da quella collina.” Il Principe calcolò che ci volevano tre mesi. E, passati i tre mesi, rifecero il cammino. Trovarono la fata Cicogna accoccolata nel nido d’oro, quasi per covare le uova d’argento. “Fata Splendore, fata Splendore, spiegatemi il sogno, se vi piace.” “Avrete presto un figlio, e sarà uomo e sarà uccello…” “Che disgrazia, fata Splendore!” “… fino ai vent’anni, Principessa. Poi diventerà un bel giovane, ma dopo aver trovato la sposa.” “E la padellina che cosa significa?” “Significa la sposa.. Non dovete saper altro.” “Ma che uccello sarà nostro figlio?” domandò il Principe. “Quel che la Principessa vorrà; passerotto o pettirosso.” “Pettirosso, fata Splendore.” “E pettirosso sia, Principessa. Principe Pettirosso è un bellissimo nome.” “Che disgrazia, fata Splendore!” “Avrebbe potuto accadervi di peggio: i nidi sono cosa sacra.”
La Principessa era in grande angoscia, pensando che suo figlio fino ai vent’anni sarebbe stato un pettirosso. E quando partorì e fece un bel bambino non credeva ai suoi occhi. “Fata Cicogna…” “No, fata Splendore” la corresse il Principe. “Fata Splendore ha voluto metterci paura. Tanto meglio che sia finita così Però…” “Però?” “Non sono, però, rassicurato del tutto.” “Non siate il corvo del malaugurio per il bambino.” “Stiamo a vedere.” “Stiamo a vedere.”
Una mattina la Principessa, cambiando i pannolini al bambino, diede un grido di orrore. Tutto il corpicino della sua creatura era coperto di una peluria gialliccia come quella dei pulcini appena nati. E il corpicino pareva già un po’ dimagrito, quasi rattrappito. “Figliolino, figliolino mio!” La Principessa aveva fin ribrezzo di toccarlo. Di giorno in giorno la trasformazione diveniva più evidente. I braccini prendevano la forma di ali e si coprivano di piume; le gambine si assottigliavano e le dita dei piedi si allungavano in zampine con unghie aguzze. E di mano in mano che le piume invadevano tutto il corpicino che si rattrappiva, nasino e labbra si foggiavano in becco. In meno di due mesi, il bambino era diventato il più bel pettirosso che si potesse vedere. Principe e Principessa avevano vergogna di far sapere che il loro figliolino era diventato un pettirosso. Dissero che lo avevano mandato a balia, lontano. Ma questa finzione non valse. Quando il bambino avrebbe dovuto poter dire: “Babbo! Mamma!” lo disse il pettirosso, che la Principessa teneva posato su un dito, e ne ebbe paura e gioia quasi nello stesso momento. Non lo potevano più tenere in gabbia: voleva volare qua e là, fare il chiasso con gli altri uccellini sui rami degli alberi del giardino. “Non aver paura, mamma! Non aver paura, babbo!” E volava via; e li chiamava dalla cima di un albero, dalla grondaia di un tetto: “Mamma! Babbo!” E spesso portava con sé uno stormo di altri uccellini, passerotti, capinere, cardellini, raperini, pettirossi come lui. Entravano con un gran frullio d’ali, s’inseguivano di stanza in stanza, si posavano sulle cornici dei quadri e degli specchi, sui tavolini, sui letti, indisturbati, perché il Principe e la Principessa avevano paura d’incappare in qualche guaio peggiore di quello sofferto e per cui soffrivano ancora. Anzi la Principessa, visto che quell’invasione ormai accadeva ogni giorno, buttava qua e là miglio, midolle, bricioli, canapuccia, scagliòla, insalatina tritata, e teneva preparati beverini con acqua, ciotoline per potervisi bagnare. Si sarebbe divertita anzi, vedendosi trattata con tanta familiarità da tutti quegli uccellini che, prima, al suo apparire in una stanza, scappavano, se essi, in compenso, avessero badato un poco alla pulizia. Invece, sporcavano dappertutto, cantando, trillando, pigolando, quasi fossero in piena campagna. “Ah, figliolo, figliolo! Dovresti farglielo capire.” “Compatiscili, mamma; non sanno di far male.” E in aprile e maggio, il castello era pieno di nidi. Non c’era stanza dove i passerotti, i cardellini, le capinere, i pettirossi non ne avessero collocati due, tre, come se il castello fosse stato casa loro. La Principessa ne trovava sulle mensole, sui tavolini, negli angoli per terra, sui cassettoni, sugli armadi, sui canapè, sulle poltrone, appesi alle branche delle lùmiere, dei saloni e dei salotti. Ed era un andare, un venire, un pigolare di uccellini appena scovati e affamati con le testine in aria e i beccucci spalancati. “Ah, figliuolo, figliuolo!” “Quando sarò cresciuto, non avverrà più, mammina!…”
E quantunque fossero già trascorsi dodici anni, e il Principino parlasse spesso con lei, la povera Principessa non sapeva ancora difendersi. Erano passati dodici lunghi anni, che al Principe e alla Principessa erano parsi dodici secoli! Ora il principino Pettirosso scappava via due volte al giorno e non si sapeva dove andasse. Andava certamente lontano, perché non si udiva più nei dintorni il gorgheggio del suo canto. “Principino, dove andate? Vado in cerca della sposa.” “Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità.” “E più buona che bella. Principessa o no, non importa.” “Sì, mamma! Sì babbo!” E scappava via; e quando tardava a ritornare, Principe e Principessa passavano ore di angoscia mortale. “Che gli sia capitata qualche disgrazia?” “Non gli facciamo il cattivo augurio…” Appena arrivava: “Dove siete stato, Principino?” “Avete trovato, Principino?” “Sono stato in cento posti, ma non ho ancora trovato nulla.” “Come? Non ci sono più Principesse a questo mondo?” “Ce ne sono, mamma, anche troppe, ma non fanno per me.” “E le altre donne?” “Babbo, le buone non sono belle, e le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò, ho ancora tempo un anno.” “Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità.” “E più buona che bella. Principessa o no, non importa.” “Sì, mamma! Si, babbo!” E scappava via. La Principessa non poteva sopportare che il Principe dicesse al figlio: “Principessa o no, non importa.” “Come, non importa? Deve dunque abbassarsi fino al fango della terra?” “Chi ha mai detto questo? Più buona che bella non significa fango, mi pare.” “Vedrete che il Principino commetterà qualche sciocchezza.” “Ne commettiamo tutti” “Ah! Mi rinfacciate ancora?!” E continuavano a bisticciarsi, fino al ritorno del principino Pettirosso. “Avete trovato?” “Non ho trovato!” “Mancano Principesse?” “Manca quella che vorrei io.” “E le altre donne?” “Le buone non sono belle; le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò ancora, babbo!” “Principessa, come voi!” “E più buona che bella. Principessa o no, non importa.” “Sì, mamma! Sì, babbo!” E scappava via.
Un giorno, finalmente, lo videro tornare con volo così impetuoso, che lo credettero inseguito da qualche uccello di rapina. Volava per la stanza, facendo giri, intrecci; sembrava ammattito. Ci volle un pezzetto prima che si calmasse. “Che cosa accade, Principino?” “Ho trovato, mamma! Ho trovato!” “Una Principessa?” “Una più buona che bella?” “Principessa, e più buona che bella! Sposerò Cinciallegra.” “Ah, figlio, figlio mio!” La Principessa dètte in un pianto che mai. Chi era Cinciallegra? Egli dunque s’immaginava di dover restare pettirosso per tutta la vita! Ci mancava quest’altra disgrazia! “Chi è Cinciallegra?” gli domandò il Principe, angustiato anche lui. “Colei che canta nell’orto del ramaio.” “È dunque una giovane?” “Più buona che bella, come tu la volevi.” “Ed è figlia di un ramaio?” “È più Principessa di me che ora sono pettirosso” rispose ridendo. “Ah figlio! Figlio mio!” E la Principessa, sentendogli dire queste cose, dava in un pianto più dirotto. Ora il principino Pettirosso andava via avanti l’alba e tornava col sole non ancora alto. “Donde venite, Principino?” “Da Cinciallegra, mamma cara.” “Se mi volete bene, lasciatela andare. Cinciallegra non fa per voi.” “Se la sentiste cantare, non direste così.” Ripartiva col sole vicino al tramonto e tornava prima che fosse sera inoltrata. “Donde venite, Principino?” “Da Cinciallegra, babbo caro.” “E come canta Cinciallegra?” “Canta così.” Ma non gli riusciva di cantare con voce umana; gorgheggiava, gorgheggiava, e, dopo un pezzetto, si interrompeva: “No, non è proprio così!” E in camera, o su un ramo d’albero del giardino, gorgheggiava, gorgheggiava, provando, riprovando, interrompendosi all’ultimo: “No, non è proprio costì” La Principessa era inconsolabile. Pensava: Se non avessi distrutto il nido e rotto quegli ovicini, tutto questo non sarebbe accaduto! Ah, figlio mio, figlio mio! Né lei, né il Principe, intanto, si ricordavano che il principino Pettirosso era già sul punto di compire i vent’anni.
Una mattina, che lo credevano volato via avanti l’alba, non vedendolo ritornare all’ora solita; Principe e Principessa stavano in gran pensiero. “Che gli sia accaduto, qualche disgrazia?” “Non gli facciamo il cattivo augurio!” E si misero alla finestra, guardando verso il punto d’onde pel solito lo vedevano spuntare. Sentirono rumor di passi alle spalle… Principe e Principessa credettero impazzire dalla gioia. “Sono io, mamma! Sono io, babbo!” Il Principino aveva cessato di essere pettirosso, ed era un bel giovane, biondo come la madre, alto e ben fatto come il padre. I baci e gli abbracci non finivano più. La Principessa si immaginava che ora il Principino non avrebbe più parlato di Cinciallegra. Invece ne riparlò subito. La madre ne fu desolata. II padre, più condiscendente, diceva: “Poiché è più buona che bella!” “La figliola di un ramaio! Non acconsento! Non acconsento!” Il Principe, per calmarla, le disse: “Andiamo a prender consiglio dal mago Barba-d’oro.” “Andiamo a prender consiglio dalla fata Cicogna, che ne sa più di lui!” Si decisero per la fata Cicogna. Ma la mattina che stavano per partire, alzano gli occhi e che cosa vedono? La fata Cicogna su una torretta del castello; il nido d’oro luccicava al sole sotto di essa, e tra l’intreccio delle barrette che figuravano da sterpi, si scorgeva il bianco delle uova d’argento. “Oh, fata Cicogna, noi venivamo da voi!”
Ha fatto mala bisogna
Chi ha detto fata Cicogna.
“Fata Splendore! Fata Splendore!” gridò allora la Principessa. Tra le piume è nato un giglio, Non era figlio ed ora è figlio. Padella preparata, Frittata e non frittata! Aperse le ali, tese piedi, e la fata Cicogna volò via. “Volete una risposta più chiara?” disse il Principe. La Principessa chinò il capo, abbattuta. “Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio.” “E frittata e non frittata che vorrà significare?” “Significa, credo, che tutto andrà per il meglio. Ci ha lasciato il nido d’oro e le uova d’argento; è il buon augurio agli sposi. Come il principe Pettirosso sposasse Cinciallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro. Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute.” Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre: “È più Principessa di me, che ora sono pettirosso” sapeva bene quel che diceva. In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la fata Cicogna. “Dove vai, piccolo pettirosso?” “Cerco la mia fortuna, una moglie.” “Vieni con me, te la trovo io.” “Principessa?” “Principessa.” “Più buona che bella?” “Più buona che bella! Eccola là.” E gli mostrò Cinciallegra che cantava, sciorinando i panni nell’orto. “Più buona che bella può darsi, ma Principessa…” “Principessa quanto te e più di te.” “Come mai?” “L’hanno scambiata a balia: e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l’ascella, e Cinciallegra non l’ha. Cinciallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo.”
Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio: “Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l’ascella.” “Certamente; sembrava una fragoletta davvero.” “Ma Cinciallegra non l’ha.” “Non l’ha?” E così fu confermato quel che aveva detto fata Cicogna. Ma ora alla Principessa non importava più che Cinciallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei. Accade spesso così.
Frittata e non frittata, La fiaba è terminata.