Il coraggioso piccolo sarto – Grimm

Redazione A cura di “La Redazione” Pubblicato il 19/05/2015 Aggiornato il 12/09/2024

La fiaba "Il coraggioso piccolo sarto" dei Fratelli Grimm insegna ai bambini che anche i piccoli, che nessuno prende in considerazione, possono sconfiggere i più grandi e prepotenti...

Il coraggioso piccolo sarto – Grimm

Il coraggioso piccolo sarto

Una mattina d’estate un giovane sarto se ne stava seduto sul suo tavolo accanto alla finestra, era di buon umore e cuciva a più non posso. Giù per la strada passava una contadina gridando: “Buona marmellata da vendere! Buona marmellata da vendere!”. Queste parole suonarono dolci nelle orecchie del sarto, sporse la sua testolina dalla finestra e chiamò: “Quassù, brava donna, qui troverete da vendere la vostra merce”. La donna fece le scale con il suo pesante cesto e dovette fargli vedere il contenuto di tutti i suoi vasi. Egli li guardò bene, li soppesò con le mani, ci ficcò dentro il naso e infine disse: “La marmellata mi pare buona, pesatemene quattro once, brava donna, e anche se è un quarto di libbra va bene lo stesso”. La donna, che aveva sperato di vendere facilmente la sua merce, gli diede quello che chiedeva e se ne andò via di cattivo umore brontolando. “E ora questa marmellata sia benedetta”, disse il piccolo sarto “che mi dia forza e lena”, prese il pane dalla cucina, ne tagliò una fetta per lungo e ci spalmò sopra la marmellata. “Non dev’esser male”, disse, “ma prima di morderla, devo finire la giubba.” E posò il pane accanto a sé e riprese a cucire e dalla gioia faceva punti sempre più lunghi. Intanto l’odore della marmellata saliva su per la parete, dove c’erano un così grande mucchio di mosche da ricoprirla e quelle ne furono attirate e si precipitarono a frotte. “Ehi, chi vi ha invitate”, disse il sarto e scacciò gli ospiti indesiderati. Ma le mosche non capivano il tedesco, non si lasciavano cacciare e tornavano sempre più numerose. Alla fine al piccolo sarto saltò, come si usa dire, la mosca al naso, prese un pezzo di stoffa da suo banco e con un “Ve la do io”, cominciò a dar giù senza pietà. Quando ebbe finito e contò, non meno di sette mosche giacevano lì morte e stecchite. “Sono proprio in gamba”, si disse, e da solo cominciò a lodare il proprio valore. “Lo deve sapere tutta la città.” E in fretta e furia si tagliò una cintura, la cucì e sopra vi ricamò a grandi lettere “Sette in un colpo”. “Ehi, non solo la città: tutto il mondo deve saperlo!” E il cuore gli ballonzolava in petto come un codino di agnello.

Il piccolo sarto si legò la cintura attorno alla vita e decise d’andare per il mondo, perché pensò che la sartoria era troppo piccola per il suo valore. Prima d’andarsene, frugò in giro per la casa per vedere se non ci fosse niente da portarsi via, ma non trovò che una vecchia ricottina e se la cacciò in tasca. Davanti alla porta vide un uccello che s’era impigliato in un rovo e lo mise a far compagnia al formaggio. Poi si mise coraggiosamente a camminare ed essendo leggero e svelto non sentiva la stanchezza. La strada portava su verso una montagna e quando ebbe raggiunto la cima più alta, vide un gran gigante seduto lì che si guardava attorno in tutta tranquillità. Il sartor si diresse coraggiosamente verso di lui e disse: “Buongiorno, compagno, vedo che te ne stai qui a contemplare il vasto mondo! Anch’io mi sono appena messo in viaggio per il mondo, perché voglio mettermi alla prova. Hai voglia di venire con me?” Il gigante lesse: “Sette in un colpo” e pensò che si trattasse di uomini che il sartorello aveva colpito e cominciò ad avere un po’ più di rispetto del piccolo omino. Poi pensò di metterlo alla prova, prese un sasso in mano e lo strizzò tanto da farne uscire acqua. “Prova anche tu”, disse il gigante “se ne hai la forza.” “Tutto qui?”, disse il sartorello “da noi questo è un gioco da bambini”, si frugò in tasca, prese il formaggio molle e lo schiacciò così che ne uscì il siero. “Meglio di te, vero!”, disse.

Il gigante non sapeva che dire, ma non gli pareva possibile. Allora prese una pietra e la lanciò talmente in alto che l’occhio faceva fatica a seguirla. “Ora, paperotto, fallo anche tu.” “Bel tiro”, disse il sartorello, “ma la tua pietra ha pur dovuto ricadere a terra – adesso te ne lancerò una che non ricadrà.” E si frugò in tasca, prese l’uccello e lo gettò in aria. L’uccello, felice d’esser liberato, s’alzò, volò via e non tornò. “Ti è piaciuto questo, compagno?” chiese il sarto. “Tirare sai”, disse il gigante, “ma ora vediamo se sei in grado di portare qualcosa di bello pesante.” Condusse il piccolo sarto fino a una grossa quercia che giaceva al suolo e disse: “Se sei abbastanza forte aiutami a portar questo albero fuori dal bosco”. “Volentieri”, disse l’omino “prendi il tronco sulla spalla, io solleverò e porterò i rami e le fronde che sono certamente la parte più pesante.”

Il gigante si mise il tronco sulle spalle, ma il sarto s’accomodò su un ramo e il gigante, che non poteva guardarsi attorno, dovette portar tutto l’albero e il sarto per giunta. Là dietro il sarto era contento e di buon umore e canticchiava una canzoncina: “Tre sarti cavalcavano fuori dalle porte….” come se portar alberi fosse un gioco da bambini. Il gigante, dopo aver portato quel gran peso per un pezzo, non ne poteva più e gridò: “Ehi, tu, devo lasciar cadere l’albero”. Il sartorello saltò giù, prese l’albero con entrambe le braccia, come se lo avesse portato fino a lì e disse al gigante: “Tu che sei un omone così grande fai fatica a portare un albero”. Andarono avanti e passarono davanti a un ciliegio, il gigante afferrò la chioma dell’albero dove c’erano i frutti più succosi, lo piegò, lo diede in mano al sarto e gli disse di mangiare. Ma il piccolo sarto era troppo debole per tener giù l’albero, e quando il gigante mollò, l’albero svettò verso l’alto e il sarto fu lanciato in aria. E quando, senza danni ricadde a terra il gigante gli chiese: “Come mai? Non hai forza di tener giù quel bastoncino?”. “La forza non mi manca”, disse il sartorello “cosa credi che sia per uno che ne ha colpiti sette in un colpo? Sono saltato oltre l’albero perché qui sotto i cacciatori sparano nella macchia. Salta anche tu, se sei capace!” Il gigante provò, ma non riuscì a saltare oltre l’albero e rimase appeso fra i rami, così che il piccolo sarto ebbe di nuovo il sopravvento. Il gigante disse: “Se sei un tipo così in gamba, vieni nella nostra caverna e passa la notte con noi”. Il sartorello era pronto e lo seguì.

Quando giunsero nella caverna trovarono altri giganti accanto al fuoco e ognuno aveva in mano una pecora arrosto e se la mangiava. Il sartorello si guardò attorno e pensò: “Qui è molto più ampio che da me in sartoria”. Il gigante gli mostrò un letto e gli disse di coricarsi e di dormire. Ma per il piccolo sarto il letto era troppo grande, non si coricò ma si rannicchiò in un angolino. Quando fu mezzanotte, pensando che dormisse profondamente, il gigante si alzò, prese una spranga di ferro e giù un gran colpo che sfondò il letto e pensò di aver fatto fuori quella cavalletta. All’alba i giganti andarono nel bosco e del sartorello si erano dimenticati ma, di colpo, eccolo arrivare tutto allegro e baldanzoso. I giganti ebbero paura che lui li uccidesse tutti e fuggirono all’impazzata. Il piccolo sarto proseguì la sua strada, sempre a lume di naso.

Dopo aver camminato un bel pò arrivò nel cortile del palazzo di un Re e, preso dalla stanchezza, si sdraiò sul fieno e si addormentò. Mentre dormiva, venne gente, l’osservarono da ogni parte e lessero la cintura. “Sette in un colpo”. “Ah”, dissero, “cosa fa questo grande guerriero qui in tempo di pace? Deve essere un signore molto potente.” Andarono e lo dissero al Re e pensarono che sarebbe stato un uomo utile e importante in caso di guerra e che, comunque, in nessun caso avrebbe dovuto lasciarselo scappare. Il Re seguì il consiglio e mandò al piccolo sarto uno dei suoi fedeli cortigiani il quale, appena il sarto si fosse svegliato, avrebbe dovuto offrirgli di entrare nell’ esercito del Re. Il messo rimase fermo accanto al dormiente e aspettò che si stiracchiasse e aprisse gli occhi e fece la sua proposta. “Proprio per questo motivo sono venuto”, rispose lui, “sono pronto a entrare al servizio del Re.” Così fu accolto con grandi onori e gli fu assegnato un alloggio adatto. Ma i guerrieri gli erano ostili e avrebbero voluto che quello fosse mille miglia lontano. “Che cosa accadrà”, dicevano fra loro, “se attacchiamo briga e lui mena botte, ne cadranno sette in un colpo. Noi non ce la faremo.” Così decisero di andare tutti assieme dal Re e lo pregarono di congedarli. “Non siamo fatti”, dissero “per stare accanto a un uomo che ne fa fuori sette in un colpo.”

Il Re era triste perché in un sol colpo perdeva tutti i suoi servi fedeli per causa di uno solo e si augurava che mai fosse venuto al suo cospetto e se ne sarebbe liberato molto volentieri. Ma non osava congedarlo, perché temeva di venire ucciso assieme a tutto il suo popolo e che lui, poi, occupasse il suo trono. Pensò e pensò a lungo e poi trovò una via d’uscita. Mandò a dire al piccolo sarto che, poiché era un tale eroe, voleva fargli una proposta. In un bosco del suo regno c’erano due giganti che facevano gravi danni: rapivano, assassinavano, incendiavano e bruciavano; nessuno poteva avvicinarsi se non a rischio della vita. Se li avesse vinti e uccisi gli avrebbe concesso in sposa la sua unica figlia che avrebbe portato in dote metà del regno, inoltre cento cavalieri lo avrebbero accompagnato per aiutarlo. ‘Sarebbe proprio un impresa per uno come me’, pensò il sartorello, ‘la bella figlia del Re e metà del regno uno non li trova tutti i giorni. ‘ “Oh si”, disse come risposta, “domerò i giganti e i cento cavalieri non mi servono: chi ne abbatte sette in un colpo non può aver paura di due”.

Il piccolo sarto si mise in cammino, seguito dai cento cavalieri. Ma quando giunse al limite del bosco, disse alla scorta: “Fermatevi qui, voglio sbrigarmela da solo coi giganti”. Poi corse nella foresta e si guardava a destra e a sinistra. Dopo un po’ scorse i due giganti: dormivano sdraiati sotto un albero e russavano tanto forte che i rami si piegavano su e giù. Il piccolo sarto, svelto svelto, si riempì le tasche di pietre e si arrampicò sull’albero. Giunto a metà scivolò lungo un ramo fino a che non si trovò proprio sopra i due addormentati e lasciò cadere sul petto di uno una pietra dopo l’altra. Per un bel po’ il gigante non si accorse di nulla, ma alla fine si svegliò, dette uno scossone al suo compagno e disse: “Perché mi picchi?”. “Sogni”, rispose l’altro, “io non ti picchio.” Tornarono a dormire e il sarto gettò una pietra sul secondo. “Cosa significa questo?”, chiese il secondo “perché mi getti pietre?” “Io non getto niente”, rispose il primo brontolando. Litigarono per un po’, ma poiché erano stanchi, lasciarono andare e chiusero di nuovo gli occhi. Il piccolo sarto riprese il suo gioco, cercò la pietra più grossa e la gettò sul petto al primo gigante con tutta la sua forza. “Questo è troppo”, gridò il gigante, saltò su come un pazzo e spinse il suo compagno contro l’albero con tanta forza che quello tremò. L’altro lo ripagò ad eguale moneta e si infuriarono tanto che sradicarono alberi e si azzuffarono fino a che caddero entrambi a terra morti. Allora il piccolo sarto saltò giù dall’albero. “Una bella fortuna”, disse, “che l’albero dove ero io non sia stato sradicato, altrimenti avrei dovuto saltar su un altro albero come uno scoiattolo, per fortuna quelli come me sono agili.” Estrasse una spada e ad ognuno affondò un paio di giusti colpi nel petto, poi tornò dai cavalieri e disse: “Il lavoro è fatto, li ho fatti fuori tutti e due, ma è stata dura, nella lotta hanno divelto gli alberi e si sono difesi, ma non è servito a nulla, quando arriva uno come me che ne fa fuori sette in un colpo.” “Non siete ferito?”, chiesero i cavalieri. “Bisogna saperci fare”, rispose il sarto, “non mi hanno torto neanche un capello.” I cavalieri non volevano credergli, si inoltrarono nel bosco e trovarono i due giganti che nuotavano nel loro sangue e tutto attorno alberi divelti.

Il sartorello chiese al Re la sua ricompensa, ma il Re era pentito della sua promessa e pensò di nuovo a come togliersi quell’eroe dal groppone. “Prima di avere mia figlia e la metà del regno”, disse, “devi compiere ancora un azione eroica. Nel bosco erra un unicorno che fa grandi danni. Devi prenderlo.” “Di un unicorno non ho certo più paura che di due giganti. Sette in un colpo è il mio motto.” Prese una corda e un ascia, se ne andò nel bosco e di nuovo ordinò a quelli che l’accompagnavano di aspettarlo fuori. Non dovette cercare a lungo. L’unicorno arrivò e s’avventò dritto contro il sarto, come se, senza por tempo in mezzo, lo volesse infilare. “Piano, piano”, disse il sarto, “così in fretta non va.” E si mise fermo ed aspettò che la bestia gli fosse proprio vicino, poi balzò dietro un albero. L’unicorno corse con tutte le sue forze contro l’albero e infilò il suo corno tanto profondamente nel tronco, che non gli rimase forza abbastanza per tirarlo fuori e così rimase prigioniero. “Ti ho preso uccellino”, disse il sarto e, sbucato da dietro l’ albero, prima legò la corda al collo dell’ animale, con l’ascia gli ruppe il corno che era infisso nell’ albero, e quando fu tutto in ordine condusse via l’animale e lo portò al Re. Il Re non gli voleva dare il premio promesso e gli fece una terza richiesta: prima delle nozze doveva catturare un cinghiale che faceva grandi danni nella foresta. Lo avrebbero aiutato i cacciatori. “Volentieri”, disse il piccolo sarto, “è un giochetto da ragazzi.” I cacciatori però non se li portò nel bosco e quelli ne furono ben contenti, perché quel cinghiale più volte li aveva accolti in modo da levar loro la voglia di rimettersi in caccia.

Quando il cinghiale vide il sarto, gli si avventò contro con la schiuma alla bocca e arrotando i denti e voleva gettarlo a terra. Ma lo svelto eroe fece un salto in una cappella che era lì vicina ed uscì dalla finestra con un altro salto. Il cinghiale lo rincorse; con un balzo il sarto lo aggirò e sbarrò la porta dietro di lui, così la bestia furiosa fu presa, perché per saltar dalla finestra era troppo goffa e pesante. Il sartorello chiamò i cacciatori, quelli videro il prigioniero con i propri occhi. Poi andò dal Re che, volente o nolente, dovette mantenere la promessa e dargli la figlia e metà del regno. Se avesse saputo che davanti a lui non stava un eroe, ma un povero sarto, se la sarebbe presa ancora di più. Le nozze furono celebrate con grande sfarzo e poca gioia e il sarto fu fatto Re.

Poco tempo dopo, durante la notte la giovane sposa udì che il suo sposo in sogno diceva: “Garzone, fammi una giacca e aggiustami i calzoni, o ti darò il metro giù per le orecchie!” Allora capì in che via fosse nato quel giovane signore e il mattino seguente si sfogò con il padre. Lo pregò di aiutarla a sbarazzarsi di quell’uomo che altro non era se non un sarto. Il Re la consolò dicendo: “La notte prossima lascia aperta la camera da letto, fuori ci saranno i miei servi e, quando sarà addormentato, entreranno, lo legheranno e lo porteranno su una nave che lo condurrà lontano nel vasto mondo”. La donna ne fu contenta, ma una guardia del Re che aveva udito tutto, e che era affezionato al giovane signore, gli riferì tutta la congiura. “A questo metterò riparo”, disse il sarto. La sera si mise a letto alla solita ora con la moglie; quando costei pensò che dormisse, si alzò ed aprì la porta poi tornò di nuovo a letto. Il sarto che fingeva solo di dormire, cominciò a gridare: “garzone, fammi una giacca e aggiustami i calzoni, o ti darò il metro giù per le orecchie. Ne ho presi sette in un colpo, ho ucciso due giganti, portato via l’unicorno e catturato un cinghiale e dovrei aver paura di quelli che se ne stanno la fuori davanti alla stanza?” Quando quelli sentirono il sarto che diceva così, furono presi da gran spavento, corsero come se li seguisse la caccia selvaggia, e nessuno osò più avvicinarsi a lui. Così il piccolo sarto era e rimase Re per tutto il resto della sua vita.

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